Non ho mai ben compreso qual è la vera differenza tra adorare supinamente Dio oppure Satanasso, a parte che nella seconda opzione c’è la concreta possibilità di mettere su qualche baracconata mistico/occultista per godersi un’orgetta con una manciata di “adepte” bombate e strafatte. Spero nessuno si risenta, ma giunto alla bellezza di mezzo secolo d’età ho constatato che dietro qualsiasi fanatismo, religioso, politico, sportivo o quant’altro, esiste solo la convenienza materiale di pochi grazie all’ottusità di molti.
Ciò detto, nell’ambiente occult-metal si attendeva con trepidazione il primo full-lenght degli svedesi
Year of the Goat, lanciati dalla medesima piccola cult-label che tempo fa aveva scoperto i The Devil’s Blood, rock band satanista olandese. Perché la nuova moda corrente è proprio quella di diffondere il verbo satanico attraverso un’insospettabile e gradevole stile hard/heavy rock, abbandonando gli impresentabili eccessi musicali, testuali e visivi del black metal novantiano. Cosa c’è di meglio di sonorità limpide, strutture eleganti, ritmi pacati, cori malinconici e suadenti, atmosfere proto metalliche, ecc, per propagandare la vittoria delle Tenebre sulla Luce? Idea peraltro degna delle moderne tattiche di dissimulazione, anche se spero che ciò non avvenga perché mi costerebbe un patrimonio di neon, lampadine e candele.
Quindi il presente album si inserisce in qualche modo nel filone dark rock, risalendo alle origini di nomi come Black Widow, Atomic Rooster, Angelwitch, ma anche di importanti e seminali entità nostrane come Jacula, The Black, Impero delle Ombre, Death SS, et similia. E va detto che il sestetto scandinavo conosce il proprio mestiere, giocando le carte di un’ottima preparazione strumentale, della capacità di scrivere pezzi brevi e diretti (“For the kings, Spirits of fire, This will be mine”) nei quali si intravedono influenze di Blue Oyster Cult, Trouble, The Devil’s Blood, ma anche mini-suite dove si sconfina in ambito prog-rock ’70 (“Angels’ necropolis, Voice of a dragon, Thin lines of broken hopes”) ed emerge l’eterea voce nordica del leader Thomas Sabbathi (alla Stratovarius, per intenderci…) ed il gran lavoro delle chitarre sempre ammantato di un certo lirismo.
Ascoltando attentamente, la band di Norrkoping è molto valida esteticamente e le sue canzoni possono piacere ad un’ampio spettro di pubblico: dai fans del rock oscuro settantiano, ai nostalgici di certa Nwobhm, fino agli appassionati dell’heavy di Mercyful Fate e Metal Church, visto che negli otto episodi compaiono elementi riconducibili ad uno o all’altro filone. Però si coglie anche la sensazione di qualcosa di poco spontaneo, di studiato, di costruito a tavolino allo scopo di veicolare sottili messaggi esoterici a più gente possibile. In sostanza non traspare la vera passione, l’anima viscerale del musicista convinto delle proprie idee, per cui alla fine si resta anche soddisfatti ma col retrogusto amaro di qualcosa che manca.
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