Oggi la centrale più importante per la produzione della musica rock di qualità è il Rancho de la Luna di Joshua Tree, California. La base della straordinaria comunità di musicisti all’interno della quale sono fiorite le migliori formazioni degli anni recenti, dai QotSA ai Masters of Reality, dai Fatso Jetson ai Goatsnake, passando attraverso lo sviluppo di un numero impressionante di side-projects: Desert Sessions, Mondo Generator, Che, Earthlings?, ecc, dove a turno sono stati coinvolti decine di protagonisti della rinascita rock in atto negli ultimi tempi.
L’ultimo di questi supergruppi ha preso vita lo scorso anno e si è dato un nome utile a sintetizzare l’ambiente in cui è nato: Orquesta del Desierto.
Ed è proprio la meravigliosa atmosfera di quel luogo ad illuminare la proposta della formazione. Una musica che ripudia le nevrosi delle metropoli ed i suoi scenari angusti, l’oppressione soffocante della folla che riempie ogni spazio con frenetico e futile vociare, per adagiarsi invece placidamente in una realtà bucolica di incantevoli orizzonti sconfinati, silenzi dolorosi per la loro totalità, quiete introspettiva di solitudini struggenti.
Sono i colori del deserto che hanno indotto Dandy Brown, bassista degli Hermano di John Garcia, a mettere insieme un po’ dei soliti amici per dare un suono a quegli emozionanti panorami.
La direzione del sound non poteva che essere acustica ed ariosa, forte mistura di country Americano, radici blues, puro e semplice rock, melodie romantiche e gioiose vibrazioni latine provenienti dal vicino Messico.
Numerose ballate tranquille e rilassate ma nessuna melensaggine mielosa, in questo disco pulsa un cuore rock adulto, maschio, esperto, di gente come Pete Stahl e Mario Lalli, uomini che conoscono bene la differenza tra una serie di canzonette edulcorate ed un bell’album di vigoroso trasporto emotivo.
Rispetto al precedente debutto,“Dos” è un miglioramento completo. Maggior sviluppo dei singoli brani, che ora portano ciascuno caratteristiche in grado di personalizzarli ed elevarli.
Ad esempio i fiati di Bill Barrett sono un’aggiunta positiva in diverse situazioni, sia magari un country-blues saltellante che odora di saloon e tequila come “What in the world” oppure il rock assolato “Life without color”, pieno di trombe squillanti e percussioni etno-latine. Resterà un po’ sorpreso chi, visti gli interpreti, si attende un assalto heavy stoner. Qui di elettricità c’è appena una lieve traccia, anche se è presente qualche ritmica brillante e trascinante per i giorni di festa in paese, “Over here” pare un episodio dei Fatso Jetson in versione campagnola, ma il piatto forte sono i memorabili folk-rock che farebbero invidia ad un Neil Young.
Me li immagino eseguiti al tramonto da un piccolo manipolo di persone intorno al fuoco, serenamente seduti in mezzo al nulla. Perle poetiche arse dal sole e sferzate dalla sabbia, davvero canzoni del deserto, ma quelle senza rabbia e senza fretta.
Vorrei citarle tutte, ma restringo il campo alla tenera scioglievolezza di “Sleeping the dream” da gustarsi sotto le coperte prima di scivolare nel sonno, ed alla malinconica “Summer” ideale per accomodarsi in veranda nelle sieste estive ad osservare flemmatici il mondo che scorre con pigra lentezza.
Immagini sicuramente insufficenti a descrivere le sensazioni trasmesse dalla voce di Stahl, uno capace di tonalità orrorifiche all’epoca Goatsnake e qui di avvolgere l’anima nel velluto più fine, un vocalist mai abbastanza celebrato.
Mai stato fervente sostenitore di soluzioni rock del tipo “morbido” ma l’eccezione per l’Orquesta del Desierto mi viene spontanea. Per stile, classe ed emozione questo è un bellissimo lavoro.
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