I
Lord Of The Grave sono la dimostrazione pratica del fatto che, tutto sommato, la simpatica e confinante Svizzera non è solo Alpi innevate, pascoli verdi e marmotte che confezionano la cioccolata con la carta viola… In assoluta antitesi con quest’immaginario paradisiaco, e molto più in linea con la vena nera del gota del metal di oltr’alpe, tale Tom G. Warrior (chi non lo conosce vada immediatamente ad infilare la testa sotto terra in stile struzzo!!), il trio (ora ridotto a duo) ci presenta cinque brani di assoluto sludge/doom, per un totale di scarsi 45 minuti (il che vi fa immaginare la lunghezza media dei pezzi). Vi basti solo sapere che, con una scelta assolutamente coraggiosa ma altrettanto folle, i nostri hanno deciso di aprire l’album con “Raping zombies”, quindici minuti che mettono decisamente a dura prova l’ascoltatore. Lo stile dei nostri, come è facile intuire, è lentissimo, ripetitivo, a volte anche monotono (ma nel genere non è una connotazione negativa, anzi…), la colonna sonora perfetta per un viaggio lisergico e psichedelico, tanto che alla mente vengono spesso e volentieri sia gli Electric Wizard, sia gli Orange Gobelin. Ovviamente è innegabile l’influenza che ha avuto la band di Iommi, e in particolari i suoi riff monolitici, sulla formazione stilistica dei LOTG, che però riescono a fondere bene il sound seventies dei Black Sabbath con quello più recente dei due gruppi appena nominati. Per non perdere il contatto con l’underground i nostri hanno prediletto una produzione volutamente minimale e spartana, che ben si sposa a quanto proposto musicalmente. Certo, l’ascolto non è semplice, su questo non ci piove, quindi è strettamente riservato agli amanti di sonorità lugubri, lentissime e ripetitive. Se non masticate il genere inevitabilmente qualche sbadiglio sopraggiungerà, anche se c’è da dire che dopo il monolite iniziale, i brani si snelliscono un po’, perlomeno a livello di durata, senza allontanarsi, però, dallo stile, decisamente e assolutamente marcato e delineato. Quindi, basso distorto e iper compresso, batteria minimale e lentissima, chitarra spesso e volentieri all’unisono con voce e basso, e soprattutto tanto ‘nero’ che fuoriesce spontaneo e prepotente durante l’ascolto. Ottima “Mountain rites”, che personalmente ho trovato un tantino superiore al resto dei brani, e la conclusiva “00/15”, che pone il sigillo ad un album che non fa certo gridare al miracolo, ma che farà senza dubbio la felicità dei cultori del genere più nero e convulsivo che esista… Complimenti quindi alla Church Within Records, che continua a scovare interessanti realtà nell’underground europeo. Per adepti…
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