Foxy Shazam - The Church of Rock and Roll

Copertina 8,5

Info

Anno di uscita:2012
Durata:36 min.
Etichetta:IRS Records
Distribuzione:EMI

Tracklist

  1. WELCOME TO THE CHURCH OF ROCK AND ROLL
  2. I LIKE IT
  3. HOLY TOUCH
  4. LAST CHANCE AT LOVE
  5. FOREVER TOGETHER
  6. (IT’S) TOO LATE BABY
  7. I WANNA BE YOURS
  8. WASTED FEELINGS
  9. THE TEMPLE
  10. THE STREETS
  11. FREEDOM

Line up

  • Eric Nally: vocals
  • Daisy: bass
  • Aaron McVeigh: drums
  • Alex Nauth: horns
  • Loren Turner: guitars
  • Sky White: piano

Voto medio utenti

Dopo averli menzionati nella mia playlist del 2012 (e probabilmente avrebbero meritato una citazione anche più “prestigiosa” … diciamo che comunque si attestano tra i primi quindici titoli dell’anno …) e averli nominati nella recensione dei Gene The Werewolf (con i quali hanno, tra l’altro, condiviso i palchi americani), è giunto il momento di sottoporre doverosamente all’attenzione dei lettori di Metal.it questa pittoresca e scintillante band di Cincinnati dal nome simpaticamente enigmatico, autrice, per quanto mi riguarda, del disco più divertente degli appena trascorsi 365 giorni di rock.
I Foxy Shazam, con un passato dai connotati maggiormente alternative e una popolarità in continua crescita realizzano con “The church of rock and roll” la perfetta sintesi tra creatività, ironia e affabilità, mescendo con equilibrio inusitato Led Zeppelin, Queen, The Sweet, Meat Loaf e Marvin Gaye, applicando al tutto un approccio dissacrante alla Spinal Tap.
Se, con una definizione del genere, a qualcuno sono venuti in mente i The Darkness, si può dire che, in qualche modo, l’obiettivo è stato centrato, soprattutto se immaginiamo la migliore versione (e quindi non l’ultima …) di quel gruppo e ampliamo il suo spettro di “sperimentazione”, per un risultato tanto “impressionante” e sufficientemente affine all’attitudine artistica della formazione di “Permission to land” da convincere lo stesso Justin Hawkins alla cooperazione compositiva e alla produzione dell’albo.
Ed ecco che l’aggettivo “divertente”, utilizzato poche righe orsono, non deve essere inteso come insulsamente faceto o eccessivamente superficiale … durante l’audizione di questi trentasei minuti (pure la durata è “giusta” … come quella dei vinili di una volta, in cui certi limiti tecnici del supporto costringevano a “dire tutto” in maniera stringata …) di musica vi troverete in prima istanza ad apprezzare l’irresistibile “cantabilità” dei pezzi, per poi scoprire successivamente quanta forza espressiva, perizia esecutiva e fantasia si “nasconda” dietro a questi gioiellini di estrosa immediatezza comunicativa.
Modello emblematico di tale attitudine appare il “famoso” singolo dell’albo, quella “Holy touch” che non smetto di canticchiare (con esiti indegni, peraltro …) da mesi e che non cessa di mettermi di buon umore ad ogni ascolto (e vi assicuro che per un inguaribile “pessimista” come il sottoscritto, non è un’impresa facile).
A beneficio dei pochi che non la conoscono (gode pure di una certa “visibilità” radiofonica …), dico che si tratta di un formidabile momento di glam-AOR, straordinariamente pomposo e inebriante, in grado di monopolizzare a lungo le sinapsi cerebrali di ogni musicofilo affezionato ai seventies e alle melodie spumeggianti e sagaci.
Nel programma troverete comunque anche molto altro … l’hard-rock di “Welcome to the church of rock and roll”, “I like It” e della potente “The temple”, tra Zeps e Queen (potranno, quindi, piacere anche agli estimatori di Wolfmother e Rival Sons …), rievocati con un geniale gusto espressivo e l’uso costante di quei fiati così accattivanti e particolari da diventare un elemento distintivo del brillante outfit americano.
Almeno al pari della voce di Eric Nally, autentico funambolo delle corde vocali, degno dell’inarrivabile Freddy Mercury (palesemente celebrato nelle armonie solari di “Last chance at love” e nelle atmosfere enfatiche e giocose di “The streets”), e capace di addolcire e ammorbidire il suo timbro fino alle sfumature soul di “Forever together” o al gospel di “(It’s) too late baby” (con tanto di fulminante assolo May-iano), altre situazioni assai emozionanti della cangiante raccolta.
E cosa dire, allora, sempre a proposito di eclettismo, di “I wanna be yours”, non troppo lontana dalla sensibilità di un Jack White, di una “Wasted feelings” alimentata dal fuoco del R&B e da un falsetto da antologia (in grado di far invidia a Mika … non so se la cosa può interessare …) oppure di una “Freedom” che sembra trafugata dal repertorio dei Rolling Stones (“Let it bleed” / “Exile on Main St.” era) per essere in seguito convenientemente aggiornata? Semplicemente che sono ulteriori sfaccettature di una creatura artistica dalle innumerevoli personalità, tanto intelligente e carismatica da saper mescolare cultura, storia e tecnica, ammantandole di una freschezza contagiosa e di una “leggerezza” assolutamente benefica e rara in questi tempi di diffusa congiuntura.
Qualora, poi, tutto questo sproloquio non vi avesse convinto o non fosse stato sufficientemente esplicativo, forse lo sarà la didascalia affidata all’ultima facciata del booklet: “Foxy Shazam is a jet plane going down. And we have been playing the same tune the whole way. It just sounds different the closer you get to the ground.” Chiaro, no?
Recensione a cura di Marco Aimasso

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