Copertina 7

Info

Anno di uscita:2004
Durata:39 min.
Etichetta:AOR Heaven
Distribuzione:Audioglobe

Tracklist

  1. YOU CAN’T TAME ME
  2. THIS LIE
  3. LIKE YOU DO
  4. GETAWAY
  5. TAKE ME HIGHER
  6. PART OF MY LIFE
  7. WHERE’S THE LOVE
  8. MELT MY ICE
  9. THIS IS MY LIFE
  10. YOU NEVER CRIED

Line up

  • Stephan Kämmerer: vocals
  • Robby Bobel: guitar
  • Rami Ali: drums
  • Thomas Bauer: bass

Voto medio utenti

Veri e propri veterani della scena hard rock / AOR teutonica, i Frontline giungono, con questo “The seventh sign”, alla settima pubblicazione discografica (titolo originale eh?) e al quindicesimo anno di attività artistica (fondazione della band nel 1989 e debutto, con “The state of rock”, nel 1994).
In questo disco i Frontline, pur mantenendo intatto il loro spiccato approccio melodico, tendono ad irrobustire in modo significativo il loro suono, grazie soprattutto all’impetuosa prestazione del chitarrista Robby Bobel, vero leader del gruppo, e alla possente performance della sezione ritmica composta da Thomas “Hutch” Bauer al basso e Rami Ali dietro i tamburi (un plauso particolare soprattutto a quest’ultimo).
Il risultato è un potente hard rock molto melodico, decisamente vicino al class metal, debitore nei confronti dei grandi colossi del genere (un nome su tutti Dokken, ma anche, rimanendo in Germania, Fair Warning, Bonfire e Victory), in cui però è anche evidente il tentativo di introdurre, talvolta, sonorità più “moderne” ed aggressive, ad evitare l’eccessiva linearità e il rischio di prepotente deja vu. Una traccia come l’opener “You can’t tame me”, dove l’incedere heavy delle chitarre si scontra con l’armonia vocale costruita dal singer Stephan Kammerer, potrà sorprendere un po’ i vecchi sostenitori della band tedesca ed è un ottimo esempio del concetto espresso precedentemente. La successiva “This lie”, con i suoi cori, ci riporta ai suoni per i quali la band tedesca è nota, così come “Like you do” e l’AOR, per la verità non molto incisivo, di “Getaway” e “Where’s the love”. Molto buone sono la drammatica “Part of my life” e i potenti mid-tempos “Melt my ice” e “This is my life” dove guitar sound piuttosto “duro” e melodia battagliano ad armi pari. Discorso a parte merita la conclusiva “You never cried” (per certi versi affine a “You can’t tame me”), contraddistinta da drumming tellurico, riff di chitarra cadenzato e pesante, il cui esito finale è comunque al tempo stesso melodico grazie alla voce parzialmente filtrata di Kammarer, il quale, pur non dimostrando grandissimo carisma e che difficilmente potrà essere annoverato tra i “campionissimi” del genere, svolge, nell’arco dell’intero album, il suo compito in maniera più che valida.
Il vero protagonista del disco, come già accennato in precedenza, è Robby Bobel, che oltre che impreziosire il sound del gruppo con interventi sempre molto puntuali, heavy al punto giusto da evitare la crisi “glicemica” (prerogativa questa dei grandi chitarristi del genere, vedi un certo George Lynch; non paragonabile nello stile ma simile nell’attitudine), ha anche il merito di produrre “The seventh sign” in modo cristallino e professionale, aspetto assolutamente fondamentale per l’efficacia di un prodotto appartenente a questo stile musicale.
In definitiva il voto è ampiamente sopra la sufficienza, per un album al quale avrebbe forse giovato un pizzico di freschezza compositiva in più e la presenza di un paio di canzoni “che spacchino” e che fungano da traino, in quanto, sebbene il livello sia più che apprezzabile, non sono rintracciabili episodi che emergano dallo standard in modo preponderante. L’approccio leggermente più aggressivo rispetto a quanto proposto in passato, potrebbe poi consentire il reclutamento di nuovi adepti, ma anche i melodic fans più intransigenti troveranno pane (e miele) adatto ai loro denti …
Recensione a cura di Marco Aimasso

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