I
Ghost sono sicuramente uno dei gruppi più sorprendenti degli ultimi due anni; sorti da quell’underground squisitamente scandinavo che nell’ultima decade è andato a rielaborare, recuperare e ammodernare in maniera più o meno marcata il sound rock Anni ‘70 e delle primissime sonorità heavy metal, sono riusciti, nel 2011, a produrre un piccolo capolavoro come
Opus Eponymous.
Sicuramente non si sta qui a discutere dell’innovatività del disco, non è quello ciò che conta: non ci si aspetta e neppure si vorrebbe alcunché al di fuori dagli schemi da una formazione che nasce dalle premesse musicali di cui sopra. L’importante è semmai la qualità della reinterpretazione dei modelli, la devozione creativa nel far rivivere ricordi musicali e la capacità di saper rievocare un riff celebre o lasciar intendere un’influenza storica senza mai però cadere nell’imitazione pedissequa e nello sterile esercizio di stile. Ebbene, il primo full length dei Ghost aveva tutto quel che di positivo e buono dovrebbe avere un album di debutto del genere, per di più insaporito da un’attitudine volutamente teatrale, esagerata, pacchiana al punto giusto nel recitare il ruolo della band di ghoul senza nome capitanata dall’antipapa satanico Emeritus.
Insomma, fino a qui tutto bene; abbiamo una band che compone e suona in maniera tanto semplice quanto impeccabile un genere che è duro a tramontare e sempre piacevole da ascoltare come l’hard&heavy settantiano, un bel lavoro di comunicazione nel celare l’identità dei componenti e rendere interessanti, curiosi i loro personaggi, un album d’esordio che ha riscosso abbastanza successo da portarli sotto i riflettori e un grande hype per quanto riguarda la loro prossima uscita.
Nel 2013 iniziano a circolare le prime notizie riguardo il nuovo album, Infestissumam; viene presentato il primo singolo,
Secular Haze, poi escono altre anticipazioni più o meno succulente, tra le quali spicca sicuramente il video di
Year Zero, altro estratto dall’imminente uscita.
Quel che salta subito all’orecchio è un deciso cambio d’intensità rispetto ai pezzi di Opus Eponymous, entrambi i singoli sono decisamente meno chitarristici, più impostati su una struttura portante gestita da tastiere e linee vocali più complesse che in precedenza. Anche lo stesso mix sembra in un certo modo meno duro, meno tipico delle produzioni metal, con chitarre meno aggressive, in secondo piano e una sensazione di basse dinamiche che si sposa bene con l’incedere solenne dei cori e dei ritornelli presenti nei pezzi.
Entrambi i singoli catalizzano sicuramente l’attenzione, sono evocativi, sono oscuri e allo stesso tempo dannatamente orecchiabili, restano in mente e non se ne vogliono andare, anche se non alla stessa maniera piacevolmente ossessiva dei vecchi brani come
Con Clavi, Con Dio, Elizabeth, Ritual o Satan Prayer. Quell’album creava dipendenza, restava impresso e costringeva l’ascoltatore a canticchiare soprappensiero per giorni e giorni, magari sul posto di lavoro, un variopinto elenco di demoni come se si trattasse dell’ultimo jingle pubblicitario subìto a rotativa in TV o in radio. Questi due pezzi invece, per carità, suonano bene e sono buoni, ma nulla di più.
Considerato tutto questo ed avendo consumato il vecchio album, non potevo che attendere con trepidazione la nuova uscita, sapendo che sì, qualcosa sarebbe cambiato nel loro sound, com’è giusto che sia, ma che comunque l’anteprima data riusciva sicuramente ad incontrare le aspettative.
La prima, breve, canzone è la title-track, atmosferica, maestosa, minacciosa al punto giusto; segue
Per Aspera Ad Inferi, un buon pezzo, ma che risulta un po’ lento e di impatto decisamente scarso per quello che dovrebbe essere il primo vero brano del disco. Dopo la già nota
Secular Haze, troviamo due brani abbastanza controversi,
Jigolo Har Megiddo e Ghuleh / Zombie Queen, che frenano ulteriormente la dinamica dell’opera. La sensazione, tra l’arrangiamento che sfiora il pop, linee vocali sempre più rilassate e chitarre sempre più assenti, è quella che i Ghost abbiano voluto rifarsi a un modello abbastanza lontano da ciò che li aveva guidati nella loro precedente fatica. Qui gli echi dei
Mercyful Fate, dei
Black Sabbath e dell’horror / shock rock sono quasi impercettibili, manca quel “tiro” che aveva reso godibile e vincente la formula di Opus Empoymous, mancano gli up-tempo e le piccole sfuriate in cui scapocciare amabilmente. Si sente decisamente il bisogno di un’impennata e il fatto che, a questo punto del disco, un pezzo come
Year Zero costituisca addirittura un incremento di dinamica, la dice davvero lunga su quanto basso possa essere il ritmo e l’intensità delle canzoni finora proposte.
Purtroppo il tanto auspicato decollo non arriva, anzi, oltre che a una mancanza di impatto, negli ultimi quattro pezzi dell’album si sente anche scricchiolare qualcosa. Se fino ad ora la struttura delle canzoni aveva tutto sommato tenuto botta, pur con qualche incertezza e rinunciando alla vicinanza a sonorità non solo metal ma addirittura rock, la chiusura dell’album risulta davvero deludente. Escludendo la calma ma solida
Body and Blood, il trittico finale propone quelle che, ahimè, suonano come canzonette di seconda scelta e non come pezzi che si vorrebbero sentire dal disco di conferma di una band che, solo due anni fa, prometteva d’essere una potente realtà della scena heavy contemporanea.
Idolatrine e Depth of Satan’s Eyes suonano senza grinta, scorrono via senza emozionare e causando anche una certa noia;
Monstrance Clock chiude l’album con sonorità sixties e una dinamica stantia, ripetitiva, raffazzonata.
Forse è questo il vero problema di Infestissumam: stanca. Problema che non si poneva nella maniera più assoluta con il precedente album. La qualità compositiva e la convinzione nell’eseguire i pezzi è sempre più latente man mano ci si inoltra nell’ascolto; sembra quasi che i Ghost abbiano riciclato delle idee di scarto e abbiano costruito attorno ad esse delle canzoni semplici, a tratti banali e mai particolarmente ispirate.
I due singoli facevano presagire un certo cambiamento di stile, ma di sicuro sarebbe stato auspicabile che, come spesso da tradizione, fossero anche gli estratti più orecchiabili e, per così dire, frivoli dell’album.
Mi sarei aspettato un’aggressività, un impatto decisamente maggiore, siamo lontani anni luce dal sound degli esordi, critica che, per un gruppo al secondo album, è decisamente grave. Se l’obiettivo era quello di replicare le sonorità di Opus Eponymous, espanderle, migliorarle e continuare nel segno tracciato, Infestissumam risulta innegabilmente un passo falso, basta ascoltare i due album di seguito e si avrà immediatamente l’impressione di trovarsi davanti a due gruppi diversi, magari con un paio di canzoni vagamente affini, ma nulla di più.
Troppo poco aggressivo, troppo poco rock, troppo poco convinto.