Cos’è successo ai
The Poodles? Mi sa che sono in parecchi a chiederselo, assieme al sottoscritto … dov’è finito il loro irresistibile e sagace “spirito ricreativo”, che fine hanno fatto quei cori enormi e quell’istantanea forza espressiva, ereditata dagli
eighties eppure anche straordinariamente vitale, che li caratterizzava ai tempi dei loro primi tre
albums?
Difficile capire se si tratta di una naturale evoluzione (forse non si può essere “spensierati” tutta la vita, anche se c’è gente che su tale apparente forma di “coerenza” ci ha costruito una carriera …), del tentativo consapevole di sperimentare nuove strade (e qualche segnale di tale cambiamento si era già intravisto in “Clash of the elements” …) o se più semplicemente, su tutto, a
pesare ci sia un fenomeno di appannamento creativo, ma quello che è piuttosto evidente, di primo acchito, affrontando il nuovo “Tour de force”, è che un approccio più riflessivo, articolato e inquieto abbia prevalso sulla ricerca della melodia catalizzante e che anche nei casi in cui quest’ultima diventa l’intento primario delle composizioni, il risultato finale non garantisca gli effetti voluti.
Con la prosecuzione degli ascolti, entrando un po’ più approfonditamente nel
mood del disco, la valutazione complessiva migliora e si ritrovano pure le superiori peculiarità degli scandinavi, oggi declinate, però, in un contesto che vorrebbe essere “diverso” e più “versatile” e talvolta finisce invece soltanto per apparire leggermente superficiale.
In definitiva, dunque, piace la carica
scandi-americana di “Misery loves company” (fra Treat e Motley Crue), l’ardore Van Halen-
iano di “Shut up!”, la spigliatezza di "Happily ever after”, le digressioni squisitamente
glitterate di “Going down”, e anche l’
hard blues sfarzoso e volubile di "Kings & fools” offre molteplici motivi d’interesse e apprezzamento.
La frizzante spontaneità di “40 Days and 40 nights” e di ”Now is the time” ci consente, poi, di ritrovare i “veri” The Poodles che conoscevamo, mentre destano alcune perplessità i contrasti di “Viva democracy” (base sonora con scorie di Metallica / Disturbed / Marilyn Manson, su cui s’innesta un
refrain vaporoso e solenne … senz’altro
democratico e ciò nonostante abbastanza
straniante!), le languidezze orchestrali di “Leaving the past to pass” e l’inconsistenza di “Miracle”, "Godspeed” e “Only just begun”, “roba” tutto sommato gradevole e tuttavia ben lontana da stimolare una produzione veramente importante di benefica dopamina.
Due parole, infine, le spendiamo volentieri anche per “En för alla för en”, la
bonus-track del disco, sia per il suo disinvolto valore ludico e sia perché è stata scelta come inno ufficiale della nazionale svedese di
hockey su ghiaccio, uno sport a cui sono assai legato (forza Valpe!).
“Tour de force” è un lavoro di buon livello complessivo, che esce sconfitto dal confronto con lo scintillante passato dei suoi autori, ma merita l’attenzione degli
aficionados, i quali, sono sicuro, si divideranno ancora una volta tra quelli che considerano il nuovo corso dei loro beniamini come un segno di “maturità” e altri che lo vedono come un sintomo di “ammosciamento” artistico.
Che la verità, come spesso accade, stia nel mezzo?