È stato quasi un parto podalico, ma alla fine “13”, il tanto atteso nuovo album dei
Black Sabbath in formazione (quasi) originale ha finalmente visto la luce. È inutile che stia qui a ricordarvi tutte le tormentate vicende riguardanti l’allontanamento del povero Bill Ward e l’ingresso di Brad Wilk (Rage Against The Machine) dietro le pelli, perché ne sono state dette di tutti i colori, e solo i diretti interessati sanno realmente come sono andate le cose. D’altra parte le regole del music business sono spietate, si sa, e non sta certo a me giudicarle o comprenderle… In questo caso penso che sia nettamente meglio concentrarsi sulla musica, è quella che conta realmente, specialmente quando stiamo parlando di un’istituzione, come lo sono i Black Sabbath.
Innanzitutto penso che il metodo migliore di approcciarsi all’ascolto di “13” sia tenendo bene a freno la nostalgia, perché mi sembra più che ovvio quanto sia inutile ogni paragone con la produzione degli anni ’70. Di certo non basta il rientro di Ozzy alla voce per far si che i nostri compongano il successore naturale di “Never say die!”, e mi sembrerebbe anche alquanto stupida come cosa. Di anni ne sono passati un’infinità, ben trentacinque, le esperienze della band e del singer sono state delle più disparate, e soprattutto oggi siamo nel 2013, quindi dobbiamo rapportarci a canoni musicali lontanissimi da quelli dei seventies.
Molto più logico mi sembra, quindi, un paragone con “The devil you know”, ultimo lavoro partorito da Tony Iommi, seppur con la denominazione
Heaven and Hell (ma la sostanza non cambia, pur sempre dei BS stiamo parlando). In quel caso, pur con la presenza di Ronnie James Dio alla voce, si trattava di un signor album, che ci consegnava la coppia Iommi/Butler in forma strepitosa. Cambia il singer, torna Ozzy, quindi di conseguenza cambia anche un po’ lo stile, dovendosi i nostri adattare alle sue caratteristiche vocali, ma quello che conta è che musicalmente parlando il trade mark della band è rimasto inalterato, grazie anche al lavoro svolto dietro alla consolle da Rick Rubin.
Iommi sputa fuori dei riffoni esagerati, ma soprattutto incanala una serie di assoli di una classe strepitosa, che confermano quanto sia immenso il suo talento. Wilk svolge molto bene il suo compito, suonando il più possibile nello stile di Bill Ward (anche se questa cosa può essere discutibile, dato che Brad avrebbe potuto metterci un po’ più di suo nelle parti di batteria, considerando anche il fatto che Ward ha un gusto ed uno stile inimitabili…), e Butler resta il solito rifinitore di qualità, da sempre la marcia in più della band grazie ai suoi giri ipnotici di basso. E Ozzy? Beh, Ozzy fa Ozzy, né più né meno… anzi, in alcuni frangenti lo fa fin troppo, avvicinando le sonorità dei brani a quelle dei suoi album solisti, ma fortunatamente ci pensa Iommi a riportare tutto sui giusti binari con un assolo, un’accelerazione o un’uscita delle sue…
Il disco si apre con “Beginning of the end” e “God is dead?”. A quest’ultima è toccata il compito di singolo apripista, quindi sicuramente ognuno di voi l’avrà ascoltata almeno una volta in radio o su Youtube. Si tratta di un brano lungo, fondamentalmente diviso in due parti, la prima più introspettiva e più Ozzy oriented, la seconda spiccatamente Sabbath, con un riffone roccioso di Iommi. Anche l’opener è stata presentata al pubblico in anteprima, e apre l’album con un riff doomosissimo e tritatutto, il classico arpeggio tetro alla Iommi, l’immancabile accelerazione alla “Snowblind” seguita da uno splendido solo, e la voce di Ozzy a fare da gran cerimoniere. Una doppietta senz’altro interessante che fa ben sperare per il prosieguo dell’album, infatti ci pensa “Loner” a mantenere alta la tensione, mettendo in luce l’anima più rock della band, mentre “Zeitgeist” è una sorta di “Planet caravan” dei giorni nostri, impreziosita da un assolo molto bluesy, veramente una piccola chicca…
Il giro di boa è dato da “Age of reason”, e non solo le sonorità tornano ad essere doom e nere come la pece grazie ad una serie di riff azzeccatissimi, ma Iommi ci regala, in chiusura, l’ennesimo strepitoso assolo, che mi ha ricordato, per stile ed intensità emotiva, quello di “Dirty women”. Sullo stesso stile si mantiene “Live forever”, che sembra uscire direttamente da “Vol. 4”, mentre con “Damaged soul”, la band paga pegno alle sue origini, quando ancora si chiamava Earth, visto che stiamo parlando di un brano spiccatamente blues, ovviamente indurito e personalizzato secondo lo stile dei nostri… Il compito di chiudere l’album, invece, spetta a “Dear father”, e ancora una volta è l’hard rock nero a farla da padrona, con il solito susseguirsi di riff, accelerazioni e assoli.
La cosa che però mi ha fatto venire realmente la pelle d’oca è stata quando, alla fine del pezzo, sono partiti gli stessi tuoni, la stessa pioggia e le stesse campane che quarantatre anni fa hanno aperto il primo album della band. Un sigillo più appropriato non potevano trovarlo, una chiusura del cerchio che fa anche presagire che, molto probabilmente, questo sarà l’ultimo lavoro in studio a nome Black Sabbath, chiuso così come tutto è iniziato. Vi giuro che fa un certo effetto ascoltarlo…
Cosa aggiungere… l’ho aspettato per anni, e ora che ho potuto finalmente ascoltarlo per bene devo dire di non essere assolutamente rimasto deluso. Un ottimo epitaffio per la band in assoluto più importante per la nascita, l’affermazione e l’evoluzione dell’heavy metal. Ora Iommi, Butler e Osbourne possono tranquillamente godersi gli ultimi anni della loro strepitosa vita, consapevoli di aver lasciato un ultimo, importantissimo tassello nell’intricato mosaico della nostra amata musica pesante.