I tanti anni “on the road” sono stati inclementi col buon Udo Dirkschneider, che oggi sembra più un birraio bavarese che un true metaller. Rimane comunque un’icona del panorama heavy metal europeo, magari di seconda fila ma pur sempre di caratura notevole. Il suo segno lo ha lasciato, prima con gli Accept e poi con gli
UDO, giunti al quattordicesimo album da studio in circa due decenni e mezzo di carriera.
Ed il presente “Steamhammer” porta perfino alcune novità, a dimostrazione che certi vecchi leoni della scena hanno ancora qualcosa da dire. Lo scorso anno la band ha perso entrambi i chitarristi, Stefan Kaufman e Igor Gianola, un doppio colpo che avrebbe piegato molti. Ma non il pit-bull tedesco, che si è subito messo alla ricerca dei sostituti. Così è arrivata una coppia di ottimi strumentisti come Kasperi Heikkinen (Amberian Dawn) ed il russo Andrey Smirnov, i quali hanno portato qualche innovazione nel rifferama e negli assoli della formazione. Una rinfrescata allo stile ultra-tradizionale degli Udo, grazie a leggeri echi classicheggianti (“Steamhammer", "Take my medicine”) senza perdere un’oncia in fatto di potenza e impatto diretto (“Metal machine", "Death ride", "Timekeeper”) e garantendo ancora un discreto livello di headbanging. Spuntano anche un paio di brani anthemici vecchia maniera (“A cry of a nation, Stay true”) dove il cantante raccoglie le forze per riproporre quel timbro aspro e minaccioso da sempre sua carta vincente.
Certo ci sono alcune battute a vuoto, ad esempio la superflua ballata “Heavy rain”, una mediocre “King of mean” o l’inconsueta “Basta ya” cantata in spagnolo, e gli arrangiamenti di tastiere spesso non convincono, però il disco nel complesso regge e credo piacerà ai fans del vocalist teutonico.
D’altronde più andiamo avanti e più dovremo abituarci ad ascoltare dischi o vedere concerti di sessantenni consumati dagli stravizi, che cercano ancora di tenere botta con dignità e senza giocarsi la credibilità costruita nelle loro lunghe carriere. Udo Dirkschneider è uno di questi.
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