Tirare legnate all’ascoltatore è un’attitudine della quale nessun gruppo hardcore che si rispetti deve mai restare a secco, e gli Unkind sanno di preciso che cosa ci voglia per riversare sul loro pubblico un assalto frontale a base di d-beat, urla e chitarre iper-aggressive.
La caratteristica peculiare dei finnici è poi quella di riuscire felicemente a miscelare alla tradizione hardcore di chiara matrice old school (Discharge e Amebix su tutti) una spiccata e caratterizzante vena scandinava, memore delle sonorità nineties di gruppi come At The Gates, Entombed e Unanimated.
I 29 minuti di violenza sonora che gli Unkind regalano ci vengono propinati tramite una produzione grezza, satura e distorta, ma potente, che non fa altro che enfatizzare l’atmosfera tetra e ruvida delle canzoni. Uno dei fili conduttori di quest’album è infatti il ben palpabile senso di disperazione e di rabbia cieca che anima le composizioni dei nostri, tradotte in musica con la fusione di beat serrati e veloci e ritmiche schiettamente hardcore che si alternano a nervature melodiche onnipresenti lungo tutta l’opera.
Non ci troviamo però di fronte a un lavoro monocorde e noioso, anzi, Pelon Juuret si rivela essere estremamente vario ed evolutivo nel suo districarsi.
È interessante, infatti, notare come il disco parta in maniera estremamente diretta e lanciata, proponendo una doppietta di pezzi in apertura d’estrazione squisitamente hardcore, senza compromessi e alleggeriti solo da qualche apertura di chitarra che lascia un flebile spiraglio di luce in un incedere spietato e oscuro. Dalla terza canzone, invece, si inizia ad impostare un cambio di intensità e un incupirsi ulteriore delle atmosfere già plumbee; dopo un incipit praticamente doom, la batteria si imposta su tempi sempre sostenuti ma più cadenzati, le chitarre si fanno più dilatate e il riffing più complesso, aggiungendo così spessore e gusto al lavoro.
Ovviamente questo non vuol dire che la parte conclusiva del disco sia un dolce declinare verso derive melodiche, gli Unkind ci sanno fare su più registri espressivi: quando vanno veloci pestano duro, quando decidono di rallentare...pestano ancora più duro!
Nell’inizio della quarta traccia, Viallinen, si possono notare echi sludge-doom e riff portanti che quasi strizzano l’occhio al depressive black, mentre la voce si fa sempre più distorta e straziante. Laki, il quinto pezzo, rialza il tiro dell’album, con dei ritmi spediti e delle armonie altalenanti tra la melodia e l’aggressività, mentre la sesta canzone, Olemisen Pelko, illude l’ascoltatore, facendo sperare (o temere?) un happy ending con le sue iniziali aperture melodiche quasi “allegre” rispetto al resto dell’album, per poi far ritornare con i piedi sulla (melmosa) terra in un finale caotico, pesante, granitico, che va a sfociare in un intrecciarsi di rullate, accordi ossessivamente ripetuti e feedback. Un po’ di pace (e di conferma di qualche attitudine, per così dire, “post”) la si trova solo nella conclusiva Saattokoti, dove un drone continuo e distorto fa da sottofondo a una chitarra acustica e a un fraseggio di banjo, fornendoci il giusto commiato per un’opera davvero compatta e nervosa, ma sempre attenta, al tempo stesso, alla varietà e alla sperimentazione.
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