Pagare tributo all’old school, spesso e volentieri, è un esercizio di stile e di devozione che può essere godibile, ma quando sa veramente troppo di datato rischia di risultare tanto anacronistico quanto poco interessante.
I finnici Ruindom ci propongono quello che potrebbe tranquillamente essere visto come un tributo al death e al thrash metal delle origini, addirittura presentando le loro composizioni nella maniera più cruda e diretta possibile, ricercando dichiaratamente un suono “live” e senza compromessi.
L’idea di base non è malvagia, tuttavia va detto che In The Eyes Of Death suona davvero piatto, estremamente “già sentito” e non riesce a catalizzare l’attenzione in maniera decisa.
Le canzoni scorrono via tra sonorità a-la Obituary/Bolt Thrower e parti oscure con uptempo e blast beat tipiche del sound di matrice scandinava; tuttavia, vuoi per la scelta di restare più che fedeli a una formula che ormai ha più di 20 anni, vuoi per una non impeccabile cura dell’esecuzione o del songwriting, i pezzi non si fanno ricordare e non riescono ad entusiasmarmi per qualche loro particolare merito o picco.
Non sto cercando l’acqua nel deserto, non mi sognerei mai di pretendere innovazione o rivoluzione da un gruppo che è evidentemente concentrato su altro, ma qui a mio avviso mancano determinate basi. Già da un primo ascolto il disco sa di approssimativo, presentando scelte melodiche e compositive quantomeno dubbie e dando quella sensazione di “Mh...ma ho sentito bene?” che non vorremmo mai avere nel momento in cui mettiamo su un album nuovo. Ad un esame più attento, dopo alcune riproduzioni, la sensazione diventa certezza: il songwriting è davvero scontato, scarno e di gusto talmente retro da risultare noioso, si sentono imprecisioni d’esecuzione anche grossolane e oscillazioni di metronomo decisamente fastidiose.
Ci sono dei momenti piacevoli, come il riff centrale di Demon Call e alcune idee di Sordid Place, canzoni in cui i nostri finlandesi mostrano comunque una certa vena thrashy di slayeriana memoria coniugata anche a certe sonorità che portano alla mente alcune cadenze ritmiche dei Carcass pre-Heartwork. Ciononostante, l’aderenza eccessiva agli stilemi death metal, la quasi onnipresenza e ridondanza della voce sdoppiata, di assoli che aggiungono davvero poco all’economia del pezzo e di parti noise iniziali e finali nei brani talmente slegate dal contesto da risultare futili, finiscono per guastare l’immagine complessiva.
In definitiva, sembra di trovarsi più di fronte ad un demo che ad un album vero e proprio: alcune idee ci sono, e i nostri possono sicuramente raccoglierle, concentrarle e concretizzarle in maniera più efficace e consona alla visione musicale che vogliono proporre, tuttavia sono davvero troppo azzoppate da un’approssimazione e da una confusione fin troppo diffusa e costante. Scrivere musica semplice, diretta e d’impatto, anche con un occhio di riguardo all’old school, è sicuramente possibile e gradevole anche nel 2013, ma ci sono dei parametri che rendono il lavoro più o meno gradito all’orecchio di chi ascolta, qui, siamo certamente un gradino sotto la soglia.
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