Immagino già cosa state pensando … un altro prodotto all’insegna della “collaborazione”, l’ennesima parata di “stelle” assemblata per tentare di attirare gli ultimi fondigli di attenzione rimasti agli sfibrati
rockofili, ormai assuefatti ad una pratica tanto fascinosa quanto diffusa.
Eppure se c’è un musicista che ispira enorme “fiducia”, che offre l’impressione nitida di esprimersi con “sincerità” in ogni sua manifestazione artistica, quello è proprio Sammy Hagar, un artista straordinario, dal
curriculum impressionante, capace, però, di non perdere in nessuna occasione un’affabile aura da “rocker della porta accanto”, privo della spocchia o della tracotanza di tanti suoi colleghi, spesso meno importanti e seminali di lui.
Uno a cui viene voglia di offrire da bere (magari dopo un incendiario concerto dei suoi …),
sicuri che non rifiuterà, insomma, ed ecco che l’idea di fare un disco “tra amici” (un vero
squadrone, tra cui i fedeli The Waboritas), spinti dalla voglia di fare musica e divertirsi assieme, qui assume un senso di “genuinità” e di naturalezza non facilmente riscontrabile altrove.
A indispensabile conferma di tale sensazione, arriva il contenuto dell’albo, un bel miscuglio di (
hard)
rock,
folk,
pop,
blues e
country, mai particolarmente “malizioso” e “calcolato” (e tenendo conto degli ospiti, avrebbe potuto esserlo con facilità …), nemmeno nella scelta delle
cover da abbinare alle stesure originali e da sottomettere alla devota sensibilità creativa della rinomata compagnia.
La rilettura di “Personal Jesus”, in tal senso, poteva costituire un discreto “rischio”, ma dopo essere già stato a suo tempo splendidamente trasfigurato da Johnny Cash, l’
hit dei Depeche Mode diventa nelle sapienti “mani” di Sammy, Neal Schon, Michael Anthony e Chad Smith un credibile e piacevole momento di
hard-soul gravido di
groove e di
pathos.
Certamente più agevole ripercorrere con competenza e vivacità il classico di Bob Seger “Ramblin’ gamblin’ man”, oppure sottoporre ad un trattamento alla Chickenfoot (volendo, analogamente a “Personal Jesus”, vista la presenza di Schon, potremmo evocare anche gli HSAS o immaginare cosa avrebbero potuto essere i Planet US …) lo
standard blues “Going down”, catturato in studio in presa diretta e saturo di adeguata elettricità.
Scorrendo il godibile programma, piacciono, poi, sia la disinvolta atmosfera
rootsy di “Winding down”, realizzata con la leggenda Taj Mahal, sia il frizzante clima
southern n’ roll di “Bad on Fords and Chevrolet”, dove è Ronnie Dunn (co-autore del brano) a condividere il microfono con un sempre efficace Hagar, mentre gli amanti delle sonorità maggiormente rilassate e soffuse potranno apprezzare l’indolenza “messicana” di “Margaritaville” (vecchio successo di Jimmy Buffett interpretato con la partecipazione di Toby Keith) e quella “hawaiana” di “All we need is an island”, impreziosita da una Nancy Wilson in ottima forma.
All’appello mancano ancora, e vanno considerati come una sorta di
dulcis in fundo di questa disamina, “Knockdown dragout”,
anthemico duetto con Kid Rock (
guitar solo courtesy of Joe Satriani), il palpitante “Not going down” (Denny Carmassi e Bill Church dei Montrose tra i co-protagonisti di un pezzo composto da Jay Buchanan dei Rival Sons, in uno sfizioso incrocio “generazionale” …) e “Father sun”, bucolico e iridescente
bijoux elettroacustico, screziato di Led Zeppelin, The Who e The Lumineers (!), con Aaron Hagar, rampollo dell’inossidabile
Red Rocker californiano, alle
backing vocals.
“Sammy Hagar and friends” non è un album imprescindibile e forse è vero che di un lavoro del genere non se ne sentiva l’impellente “mancanza” … se cercate, però, tanta competenza e altrettanta attitudine, affiancate ad una sana propensione al divertimento e alla condivisione della bruciante passione per il
rock n’ roll, il tutto senza troppe paranoie, affidatevi tranquillamente a Mr. Sammy Hagar (e alla sua “cricca” …) … soddisfazione garantita.