La musica, si sa, non può venir considerata una scienza esatta, né si possono applicare ad essa criteri matematici pur elementari. Mi lancio in un parallelismo alcolico: mischiando una vodka da 40 gradi, un rum da 30 e un assenzio da 70, non si otterrebbe affatto un paradossale cocktail da 140 gradi, bensì un sinistro beverone dalla gradazione ben inferiore.
Lo stesso accade nel metal: gettare nel calderone del proprio disco d’esordio le sonorità di 3-4 grandi gruppi, nella speranza di assicurarsi così la sommatoria delle loro indubbie qualità, potrebbe rivelarsi operazione meno proficua del previsto…
Credo sia il caso che i
Rivers of Nihil se ne rendano conto quanto prima, dal momento che il loro
The Conscious Seed of Light soffre non poco a causa di tale increscioso equivoco.
Il quintetto proveniente dalla Pennsylvania, ad onor del vero, avrebbe tutte le carte in regola per smentirmi: prestigioso contratto con
Metal Blade, perizia strumentale di prim’ordine, produzione impeccabile ad opera di
Erik Rutan (
Hate Eternal), artwork firmato dal leggendario
Dan Seagrave e, non ultimo, innegabile margine di crescita depongono senz’altro a loro favore. Allo stesso modo, l’idea del concept spalmato su quattro album (uno per ogni stagione: il debut si concentra sulla primavera) denota, se non originalità in senso stretto (Vivaldi ebbe un’idea simile quasi 300 anni fa) quantomeno ambizione e capacità programmatica.
Le magagne, come anticipato, risiedono nella mancanza di una identità precisa: la proposta dei nostri baldi giovincelli, di fatto, suona come una miscela d’influenze riproposte senza eccessiva volontà di rielaborazione. Pensate a un intruglio di
Morbid Angel, il cui malevolo spirito aleggia lungo tutto il platter (
Soil and Seed, per citarne una, ricorda da vicino
Where the Slime Lives, senza contare che il growling di
Jake Dieffenbach è davvero simile a quello di
Dave Vincent) e di djent alla
Meshuggah (chiaramente percepibile sin dalla seconda
Rain Eater), con una spruzzatina del death più schizofrenico (mi sorgono in mente
Decrepit Birth e
Rings of Saturn).
Da ciò nascono una manciata di canzoni interessanti, varie, ricche di cambi di tempo, shredding ed esercizi di bravura della sezione ritmica. Il disco procede piacevolmente, ma regala pochi sobbalzi, a meno che non ci si soffermi sul profilo squisitamente tecnico della proposta (approccio che io tendo ad evitare). Qualora si analizzasse il songwriting, invece, non si potrebbe sorvolare sulla mancanza di brani killer (anche se la conclusiva Airless è notevole) e sulla spiacevole sensazione di copia/incolla che fa capolino di quando in quando.
Tirando le somme, ritengo che la band di Reading sia ancora troppo acerba per ambire a un’immediata ascesa nell’Olimpo del death. Nondimeno, gli amanti dei gruppi succitati potranno trovare numerosi spunti d’interesse in
The Conscious Seed of Light; agli altri suggerirei un ascolto preliminare o, in alternativa, qualche annetto di paziente attesa. Prevedo, infatti, che una volta giunti all’ultima delle quattro stagioni staremo già parlando dei
Rivers of Nihil come di una realtà di spicco nel panorama estremo statunitense. Spero per loro di non sbagliarmi.
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