Tornano i leggendari blackster greci, giunti al nono album, e lo fanno in grande con un disco convincente sotto tutti i punti di vista; i Nostri si presentano in formazione rimaneggiata e il leader, Sakis, si occupa di gran parte del lavoro strumentale, oltre che di quello vocale. Per chi non sapesse molto su di loro - già perchè anche dopo quasi vent'anni di carriera, con otto album alle spalle e una leadership nel panorama musicale ellenico, non hanno mai avuto quel riconoscimento, quel successo e quella fama che avrebbero meritato - dico solo che questi ateniesi hanno sviluppato un tipo di black metal assolutamente fuori dai canoni, personale e originalissimo, anche precedentemente all'ondata di bands proveniente dalla Norvegia; hanno saputo resistere alle mode, si sono evoluti con coerenza e il loro sound odierno è il naturale sviluppo di ciò che fu agli albori.
Questo "Sanctus Diavolos" è capace di catturare sin dal primo ascolto, vuoi per una produzione che ne esalta tutte le sfaccettature, vuoi per una serie di composizioni che vanta una qualità davvero molto elevata. Grandissimo ruolo hanno le tastiere che non snaturano minimamente l'anima black metal della band ateniese - come molti puristi potrebbero pensare - ma che anzi conferiscono un alone misterioso, teatrale e atmosferico veramente suggestivo; Sakis stende un tappeto di keyboards su molte composizioni, senza mai prevaricare sugli altri strumenti, ponendosi in secondo piano e risultando decisive nell'atmosfera complessiva del disco. Parlavo precedentemente della particolarità del sound dei Rotting Christ e vorrei tornarci sù: il loro modo di intendere blak metal è totalmente diverso dal quella serie di band fotocopia che oggi vengono dal nord Europa e si fonda su una gran varietà stilistica, su cambi di tempo, assoli e controcori anche femminili davvero suggestivi. In questo disco, a mio parere, c'è la naturale evoluzione del black metal che senza perdere un grammo di rabbia, malvagità e sulfureità (mi si permetta il neologismo) sa rinnovarsi, sa pescare nelle origini del genere - non di rado sembra di ascoltare i primi Celtic Frost ("Athanati este"), alcuni echi dei Venom - e metabolizzarle con un pizzico di melodia. Vorrei poi soffermarmi sull'ultima traccia, quella che dà il titolo al disco: una canzone stupenda in cui cori femminili eterei fanno da contro altare alla graffiante voce di Sakis, in cui la musica diviene uno splendido connubio di sinfonico e grezzo black metal, in cui si celebra una sorta di messa nera intrisa di un'atmosfera inquietante e avvolgente; forse la summa del disco, l'essenza del sound dei nuovi Rotting Christ. Che guardano avanti ben consci delle loro radici nere, infernali.
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