In franchezza, non so cos’abbiano fatto di male i
Black Messiah per meritare la scarsa considerazione loro attribuita dai metalheads. Sarà il progressivo calo d’interesse che sta investendo l’intero genere d’appartenenza, sarà l’utilizzo dell’idioma tedesco, sarà lo scarso appeal del moniker, poco originale e ancor meno caratterizzante, sarà il profilo estetico non irresistibile dei musicisti…
Non ho una soluzione all’enigma, fatto sta che la band di Gelsenkirchen, a fronte di una carriera ultraventennale e di una discografia di tutto rispetto, ha sempre faticato a imporsi e a ritagliarsi lo spazio che a mio avviso meriterebbe.
Esternato il piccolo rammarico, mi tuffo nell’analisi di questo
Heimweh (traduzione: nostalgia), sesto studio album cui è demandato il compito di succedere al più che discreto
The Final Journey, immesso sul mercato nel febbraio del 2012.
Ebbene, mi sento di poter subito rassicurare i lettori: i
Black Messiah rimandano ancora l’appuntamento col primo passo falso discografico, dimostrandosi compositori continui e musicisti affidabili. D’altra parte non sono tutte rose e fiori: qualche lieve incrinatura, nella rodata macchina da guerra teutonica, l’ho individuata.
Le coordinate musicali, in ogni caso, non si sono spostate granché: il sestetto continua imperterrito a proporre quel pagan epic folk che credo rimarrà il loro trademark sonoro sino alla fine (del black sinfonico degli esordi resta ben poca traccia).
Dunque, atmosfere maestose ed epiche galoppate a profusione, il tutto condito dalle scorribande di strumenti come violino, fisarmonica e flauto, come sempre autentico valore aggiunto delle composizioni.
Per quel che mi riguarda, nulla di male in ciò; anzi, la formula funziona benone in pezzi come la travolgente
In the Name of Ancient Gods o la mia preferita
Wildsau, il cui irresistibile incedere folkeggiante e danzereccio v’impedirà di rimanere fermi durante l’ascolto.
Vi sono poi canzoni buone ma non imprescindibili, come
Die Quelle der Weisheit o
Edmund von Ostanglien, e purtroppo alcuni momenti non ispiratissimi: penso in primo luogo alla title track, ballatona medievale suggestiva ma troppo statica, e in seconda istanza a
Nidhoegg, infruttuoso tentativo di vestire panni estremi che, evidentemente, ai tedeschi non calzano più.
Tale considerazione mi fornisce l’appiglio per affrontare il tema della produzione, che già in altri frangenti ha costituito un problema per i nostri. Anche in
Heimweh si poteva fare meglio: il vocione del barbarico
Zagan occupa una posizione sin troppo frontale e prominente; non ho gradito il suono della batteria, secco e slegato dal contesto, mentre le chitarre risultano spesso leggere, pulite… in una parola power. Non che ciò costituisca un difetto di per sé, eppure trovo che simili scelte, assieme all’impostazione smaccatamente sinfonica delle keyboards, conducano a un amalgama sonoro che attutisce la foga battagliera e l’irruenza esecutiva che i
Black Messiah hanno dimostrato di possedere.
In definitiva, ci troviamo tra le mani un album di buon livello, che non deluderà i (pochi, ahimè) fan del gruppo; al tempo stesso, si registra un piccolo passo indietro rispetto ai fasti del passato.
Stavolta bravi, ma non bravissimi.