Si è sciolta la coppia Liebling-Hasselvander, a testimonianza della difficoltà di vivere insieme una carriera ultraventennale senza il minimo attrito, ma la creatura Pentagram non ne ha fatto un dramma. Il fulcro resta sempre il carismatico cantante dallo sguardo allucinato, ed intorno a lui si sono stretti due Internal Void (Carmichael e Heinzmann) ed un ex-Cathedral/Penance (Smail) confermando l’esistenza di una compatta scena sotterranea nel circuito doom-heavy rock sempre sensibile a fruttuose collaborazioni.
Ed in questo caso fruttuosa lo è stata di certo, vista la magnifica e fresca atmosfera che si respira nell’ultimo lavoro della formazione Statunitense.
Nel corso di un’intervista per questo sito, Liebling affermava di non considerare i Pentagram una vera e propria doom band, specie se messa in relazione con certe pallose tristezze neo-gotiche che vengono comunemente fatte rientrare nel genere. Inconfutabile tesi, alla luce di uno stile che ha infatti le sue radici ben salde negli anni ’70 in quel proto-heavy urticante e fragoroso esploso con i Blue Cheer, immerso poi in un’ambiente tenebroso ed attraversato da vibrazioni e brividi orrorifici generati dalle intonazioni tragiche e teatrali del veterano cantante.
Quindi chi si accosta a “Show’em how” non si attenda sfibranti mollezze cimiteriali, bensì una focosa vitalità muscolare che richiama, con la competenza di chi l’ha vissuta, l’era delle origini del metal. Sicuramente con i toni oscuri e minacciosi che scoprimmo negli Angelwitch o nei Witchfinder General, vedi l’incedere massiccio di “Wheel of fortune”o le trascinanti citazioni Sabbathiane di “Catwalk” e “City romance” nelle quali l’interpretazione sognante, sarcastica e nasalmente maligna del leader risulta formidabile, oppure retrocedendo ancora nel tempo con la fulminante acidità della Cheer-iana “Elektra glide”, che trasuda di vera passione per il torrido heavy blues.
La sensazione di vivere un’album forte del pathos di altri tempi si acuisce ulteriormente grazie alla presenza di antiche gemme riportate a nuova vita, la struggente “Last days here” e soprattutto quella “Starlady” risalente all’epoca Bedemon, che leggenda vuole fu rifiutata dall’orgoglioso Liebling nientemeno che ai Kiss, i quali la desideravano ardentemente per farla risultare però come propria creazione. Ma non dimentichiamo che a parte le sottigliezze descrittive, i Pentagram sono a buon diritto padrini della scena doom e nella title-track impongono tutta la loro classe per una magnifica canzone, maestosa e magica, vibrante ed evocativa, rocciosa e piena di picchi eccitanti dove Carmichael può dare sfogo al suo solismo ispirato. La tensione oscura non cede neppure dove il gruppo rispolvera quelle semi-ballad grevi e scenografiche che fecero la fortuna di molte formazioni seventies, qui tirate a lucido e forti dell’abilità recitativa di Liebling, vedi in particolare il crescendo drammatico di “If the winds would change”, uno dei momenti più toccanti del disco.
Non si può che provare rispetto ed ammirazione per un personaggio il quale ha attraversato fieramente indenne trent’anni di mode e cambiamenti, senza cedere di un millimetro a qualsivoglia compromesso commerciale. Pur se mai baciato dal grande successo, Liebling può essere messo tra i monumenti dell’heavy rock tanto quanto un Wino Weinrich o addirittura un Lemmy, gente con questa musica nel sangue che non ha mai confuso coerenza stilistica con ottusa ostinazione, proseguendo per la propria strada in modo lineare ma senza perdere contatto con la realtà. Perciò i Pentagram, qualunque sia la loro line-up, sono lo specchio di tale attitudine e garantiscono sempre un investimento da fare senza indugi, specie se l’album è riuscito come “Show’em how”.
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