Ci sono dischi di cui si ha la “necessità” di parlare, gruppi la cui grandezza non “può” essere taciuta, anche se il tutto in realtà esula dagli “obblighi promozionali” a cui gli scribacchini di una
webzine come la nostra sono felicemente vincolati.
Ed ecco che, approfittando di un periodo di relativa inattività, decido di raccontarvi
qualcosa di “The circle and the blue door” dei
Purson, recuperando così con imperdonabile ritardo la recensione di quello che reputo una delle migliori uscite del 2013 ormai agli sgoccioli.
L’ambito è quello del “new vintage rock”, un universo fascinoso e controverso, abitato da numerose splendide creature musicali che però, raramente, sono in grado di eguagliare (mentre di “superare”, beh,
quasi non se ne parla …) veramente i loro maestri, nel momento topico in cui si deve scegliere a chi affidarsi per i propri ascolti quotidiani, sempre più ristretti dalle frenesie del vivere contemporaneo.
Ebbene, il debutto sulla lunga distanza dei britannici, pur abbeverandosi copiosamente all’inesauribile fonte dei “classici” ha trionfato in un’impresa riuscita a pochi: dopo un primo ammirato contatto, continuare a farsi preferire ad un appello alla propria fedele collezione discografica, dove dimorano i riconoscibili modelli ispiratori della
band.
C’è qualcosa di profondamente conturbante e di “magico” in questi solchi, la capacità innata di fondere l’
hard rock di Deep Purple e Led Zeppelin con la psichedelia
sixties dei Jefferson Airplane, immergendo la ribollente materia nel peccaminoso e occulto calderone di Coven e Black Sabbath, senza dimenticare di condire il composto con appena un pizzico di attitudine
prog (tra Genesis, Van Der Graaf Generator, Atomic Rooster e roba maggiormente “bucolica” alla Mellow Candle …) e con appena una spruzzata di decadenza
glam (Bowie, T. Rex), ottenendo un linguaggio sonoro potente e mutevole, capace di andare oltre le sue inarrivabili muse ispiratrici.
Gran cerimoniere dell’opera è fatalmente Rosalie Cunningham, personificazione stessa dell’essenza inquietante e maliosa dei Purson (che, ricordiamolo, è il nome di un demone di alto lignaggio …), in grado di condensare nel suo magnetico timbro Grace Slick e Jinx Dawson, attirando l’ascoltatore in un dedalo di suoni sinistri, ammalianti e vibranti, da cui “fuggire”, una volta entrati, sarà molto difficile.
Analogamente a Spiders, Blood Ceremony e Jex Thoth, ma con un’intensità espressiva ancora più oscura e malsana, che rimanda alla travolgente esperienza dei The Devil’s Blood, la formazione albionica sciorina uno dopo l’altro undici frammenti di autentico scompiglio sensoriale, che prendono avvio con la morbosamente leggiadra “Wake up sleepy head” e si concludono con il melodramma
bluesy di “Tragic catastrophe”.
In mezzo troverete le straordinarie pulsazioni ipnotiche di “The contract”, il medianico
trip hard-folk “Spiderwood farm”, la caleidoscopica litania “Sailor’s wife’s lament” e le vertigini lisergiche di “Leaning on a bear”, impossibili da scacciare dalla memoria.
A persuadervi senza possibilità di scampo di non aver a che fare con “uno dei tanti” frequentatori (magari pure un po’ opportunisti …) della scena, arrivano poi “Tempest and the tide”, liquida ballata dalle maliose suggestioni celtiche, “Mavericks and mystics” e le sue febbricitanti scansioni
hard-blues, “Well spoiled machine”, un gioiello di acido
dark-prog e ancora “Sapphire ward”, un impressionante esperimento di trasposizione degli Airplane ai giorni nostri e “Rocking horse”, che ricorda addirittura qualcosa delle prime Heart, quelle perdutamente innamorate dell’immarcescibile verbo del glorioso Dirigibile.
Enorme impatto emotivo, ispirazione visionaria e cangiante, alchimie strumentali fantasiose e seduttive, una voce incredibilmente evocativa e, per non lasciare nulla d’intentato, una stupenda veste grafica … io questo lo chiamo il lavoro di artisti con la A maiuscola … o semplicemente l’esordio dell’anno, se preferite.