Avevo già affrontato in una precedente recensione il tema delle leggende metropolitane, chiarendo quanto poco credibili suonassero alle mie orecchie.
Certo, qualche eccezione la si può trovare: ad esempio, resto convinto che il filmato dell’astronauta americano zompettante sulla Luna sia un clamoroso fake; allo stesso modo, una insinuante vocina interiore mi martella da anni, postulando con l’insistenza di un venditore di cocco sulla spiaggia che le teorie complottistiche relative a
South American Assault, album dei
Killers di
Paul Di’Anno, siano fondate.
Di quali teorie parlo?
La prima: in molti sostengono che questo live non sia tale, ma che si tratti invece di una banalissima registrazione in studio, cui siano poi stati aggiunti applausi, fischi e strilli di una platea immaginaria.
Certezze non ce n’è, ma qualche dubbio pare legittimo porselo: come spiegare la reazione entusiasta dei (forse) presenti alla pur carina
Children of Madness, scandita per tutta la sua durata da applausi perfettamente a tempo e della medesima intensità? Ciò suona ancor più sospetto se messo a confronto con la leggendaria galoppata strumentale di
Phantom of the Opera, accolta nel silenzio più totale.
La seconda: pare che il gruppo nemmeno sia mai approdato in Sud America (parliamo di Brasile, Argentina e Venezuela) nell’estate del 1993, e che le registrazioni siano precedenti. Simile teoria verrebbe vieppiù corroborata dall’assenza di qualsivoglia brano tratto dall’album d’esordio dei
Killers, il peraltro bellissimo
Murder One, nonostante questo risalisse al 1992. Scelta bislacca, non vi pare?
La terza: non solo si tratterebbe di un live farlocco; la line up dichiarata, infatti, non sarebbe nemmeno quella che effettivamente ha imbracciato gli strumenti. I ben informati parlano della presenza in studio del solo
Paul e del bassista
John Gallagher (ex
Raven), accompagnati da sessions senza nome (una sorta di
Nameless Ghouls dei
Ghost ante litteram) anziché dai “titolari”
Cliff Evans e
Steve Hoppgood.
Sarà vero? Sarà falso? Sar…
Ok, mi fermo qui: chi come me è cresciuto guardando
Drive In ricorderà la battuta di
Ezio Greggio.
La quarta: nella tracklist ufficiale dell’epoca faceva bella mostra di sé, in posizione 11, il brano
The Promise, originariamente composto… dagli
Iron Maiden?
Notizia bomba, scoop sensazionale in grado di giustificare un interminabile specialone in diretta di
Enrico Mentana: si tratterà forse di un rarissimo pezzo scritto prima dell’estromissione di
Di’Anno, di una pregiata chicca per i completisti maideniani, di un inestimabile tesoro sommerso e finalmente riportato alla luce?
Ehm… no.
Si tratta solo di uno “strano” errore:
The Promise, in realtà, appartiene ai già citati
Battlezone, sfortunato (e scialbo) progetto in cui il singer di Chingford si cimentò a metà anni ’80. E non è neanche ‘sta gran canzone, fra l’altro.
Difficile, in era pre-internet, pensare a una semplice svista, e non a un malizioso tentativo di vendere qualche copia in più ingenerando fallaci aspettative nei sempre munifici fan della Vergine.
Lascio a voi le opportune valutazioni del caso: io, per quanto tenti da sempre di difendere ben oltre il difendibile qualsiasi cosa sia anche solo vagamente imparentata con l’universo
Maiden, non me la sento di declassare ogni accusa a mero cicaleccio del web.
D’altra parte, svolte le debite premesse, trovo corretto analizzare la lodevole ristampa della
Metal Mind Productions fingendo che le illazioni non esistano, e trattando questo live come fosse… un live.
Prima però, una piccola precisazione di carattere estetico: il nuovo artwork fa schifo. Perdonate il giro di parole, ma davvero non mi capacito di tanta sciatteria e genericità. A questo punto, mille volte meglio gli zombi della copertina originale (pur non potendosi sostenere che fossero disegnati bene).
Oh, ora si può infine parlare di musica! Buona musica, per di più.
Mi permetto di liquidare senza troppi convenevoli l’analisi dei pochi brani appartenenti ai
Battlezone, che scorrono piacevoli ma senza lasciare eccessiva traccia, nel solco di un hard rock grintoso quanto privo di guizzi degni di nota.
Più interessante è la resa dei sette pezzi di maideniana memoria, che non deludono le attese. La prestazione strumentale non si rivela all’altezza degli originali, questo è poco ma sicuro, tuttavia l’esecuzione di pezzi come
Murders in the Rue Morgue o
Remember Tomorrow riesce a convincere grazie al feeling aggressivo, grezzo e martellante, che spesso dona alle composizioni una veste diversa. Magari non sempre calzante (la versione iper-veloce di
Sanctuary, per dirne una, lascia un po’ il tempo che trova), ma in generale godibile.
La produzione si difende in modo egregio, pur risultando ovviamente data
ta se posta a confronto coi live degli ultimi anni, spesso contraddistinti da suoni nitidissimi e pompati all’inverosimile. Ciò che più importa, ad ogni modo, è il giusto risalto attribuito all’elemento di maggior interesse: l’ugola di
Di'Anno.
Si sa che gli eccessi sono costati molto, moltissimo al frontman britannico, anche in stretti termini di resa vocale. In questa sede, per fortuna, abbiamo modo di godere del
Paul migliore: ottima prestazione da parte sua, giusto un pelo offuscata dalla scarsa verve nell’annunciare i pezzi e dalla freddezza col pubblico… il che potrebbe dipendere dal fatto che il pubblico non c’era!
Fasullo o meno,
South American Assault è un prodotto che in nessun caso può esser ritenuto indispensabile, né gli si può appiccicare l’etichetta di “album storico” in senso assoluto; di sicuro, regalerà soddisfazioni a coloro i quali ancora oggi vanno in sollucchero all’ascolto di “quelle” canzoni e di “quella” voce.
Da qualche tempo
Di’Anno ha annunciato l'imminente addio ai palchi: questo live può rappresentare un buon metodo per consolarsi.
Anzi no: proprio mentre mi apprestavo a uppare (termine orrido) la recensione, ho letto che
Paul avrebbe ritrattato, affermando che non smetterà del tutto di cantare dal vivo e che è stato mal interpretato. Mi ricorda un ex parlamentare di nostra conoscenza…