E chi l'avrebbe detto che già al secondo album gli svedesi
Morbus Chron sarebbero maturati e cresciuti fintanto da provare a percorrere un cammino più personale ed elaborato? Davvero una bella sorpresa.
Su
Sweven abbiamo una continua alternanza di chitarre acustiche e marci riff elettrici, contrasti costanti tra partiture più lente ed atmosferiche che si contrappongono a loro volta ad accelerazioni fino a spingersi su tempi belli sostenuti, ma mai iperveloci.
La sgraziata voce di
Robert Andersson sembra il ruggito di un leone ferito in un mattatoio vuoto, rimbomba, echeggia ed è ricca di riverbero come nelle straordinarie produzioni del periodo magico del death nordico a cavallo tra '90 e '95.
Le soluzioni adottate si alternano, si susseguono e anche i riff vengono ad ogni giro completati, ampliati, alzati e abbassati di tono dando quasi la sensazione di trovarci difronte ad un'unica lunga composizione. La stanchezza all'ascolto non si avverte proprio, grazie appunto ai continui cambiamenti di umore, mantenendo però uno stile di fondo riconoscibile. Non vi sto a raccontare che i
Morbus Chron sono un gruppo assolutamente originale, pioniere o qualche altra vaccata, sono semplicemente quattro ragazzi cresciuti ad
Asphyx e birra che reinterpretano i loro idoli dannatamente bene e senza copiare in toto. È così che potrete scorgere qua e là, oltre ai già citati
Asphyx, l'imprinting di
Nihilist, Autopsy, Unleashed, Demigod, Edge of Sanity, Candlemass e via dicendo, in modo non banale o pedissequo questi svedesi suonano il loro death metal con un grande tocco atmosferico.
Proprio qui sta la differenza con il loro disco di debutto. Là dove
Sleepers in The Rift (per quanto molto piacevole) riprendeva esageratamente i nomi riportati qui sopra,
Sweven cerca di fare qualcosa di più personale.
Tante sono le porzioni acustiche doomy che si legano con le parti più crude, violente e rozze, avvolgendo le canzoni in un aurea orcura e malinconica ma che non sfocia mai nel depressivo. Canzoni lunghe ed articolate come
Towards a Dark Sky e
Ripening Life (quasi priva di cantato) si danno il cambio con pezzi più diretti e da headbanging come
Aurora in The Offing, in generale però le composizioni sono ben articolate ma non troppo complesse, addirittura strumentali vedi
Solace o la traccia di chiusura
Terminus.
Con le dovute virgolette, potremmo dire che è un album "progressivo" (non spaventatevi però!) nel senso che le canzoni sono in continua evoluzione e sperimentano diverse soluzioni, evitando accuratamente di lasciarsi andare in sezioni troppo complicate.
L'unica piccola pecca, naturalmente secondo la mia modesta opinione, è la mancanza di un paio di brani killer, veloci, totalmente violenti che spezzino il lavoro, anche per non creare troppo distacco col precedente e diretto
Sleepers in The Rift.
Come detto in apertura, davvero una bella sorpresa.
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