Provo a giocare d’anticipo, così da evitarvi la briga di porre la fatidica domanda “ma chi c…. sono costoro?”. Ebbene, sappiate che dietro il misterioso moniker
Order of Isaz si celano alcuni musicisti illustri della scena metal svedese: per la precisione, si parla nientepopodimeno che di
Johnny Hagel (ex bassista dei
Tiamat) e di
Tobias Sidegård, che soleva impegnare le proprie corde vocali in favore dei
Necrophobic, prima che questi lo allontanassero a seguito di vicende giudiziarie poco piacevoli.
Pur trattandosi di una band semi-sconosciuta al pubblico, gli
Order (sono già entrato in confidenza) esistono dal 2009, anno in cui pubblicarono un trascurabile EP; d’altra parte solo oggi, grazie alla
Season of Mist, il quartetto scandinavo giunge alla pubblicazione del primo full, titolato
Seven Years Of Famine (citazione biblica).
La domanda, come si suol dire, sorge spontanea: da che parte penderà la bilancia del sound?
A:
TiamatB:
NecrophobicLa risposta al quesito è ancor più banale di quelle date dal buon
Pippo Inzaghi nelle interviste post-partita:
A, e l’accendiamo.
Non può sussistere dubbio alcuno: l’inquieto spirito dei gloriosi
Tiamat d’antan aleggia su quest’album, conducendolo per mano verso lidi gothic anni ’90 che saranno anacronistici quanto volete ma a me intrigano ancora, e assai.
Poi, se il rischio è quello di giungere fuori tempo massimo, gli
Order Of Isaz fanno anche di peggio, pescando a piene mani nei ruggenti anni ’80, e per la precisione dalle ammalianti sonorità dark wave di
Sisters of Mercy,
Fields of the Nephilim e
Dead Can Dance (omaggiati da una cover della loro
Spirit).
Ne esce un lavoro tanto nostalgico, decadente, romantico… quanto trascurabile.
Ahimè, meglio giungere subito al nocciolo della questione:
Seven Years of Famine suona posticcio, privo di ispirazione e piatto sotto il profilo emotivo.
Numerosi e pesanti i difetti che inficiano la resa del platter: partirei dal songwriting, sì competente eppur scolastico nel riproporre stilemi compositivi altrui senza una seppur minima volontà reinterpretativa. Continuerei con la performance vocale di
Tobias: non me ne voglia il biondocrinito singer (visti i precedenti, ci terrei a non inimicarmelo), ma ho trovato la sua prova troppo forzata, troppo palese nella volontà di gettare un ideale ponte tra il tenebroso fascino di
Johan Edlund e la graffiante irruenza di
Nick Holmes. Da ultimo citerei le strofe, autentico punto debole del disco. Ok, posso capire il giochetto di proporre strofe interlocutorie e low profile al fine di valorizzare la magnificenza dei ritornelli; tuttavia, temo che qui ci si sia fatti prendere un po’ la mano. Se a ciò si aggiunge che nemmeno i chorus paiono imbattibili, capirete che la situazione si fa grigia.
E grigio è proprio il dipanarsi della tracklist, che presenta giusto un paio di sobbalzi all’altezza di
The Blackened Flame e
Drowning, ma che collassa nel tedio di
Father Death (afflitta da un immobilismo melodico soffocante), nella pochezza di
Screeching Owl (“leggermente” ispirata ai
Type O Negative), nella stucchevole banalità di
Dancing Shadows e in una serie di episodi davvero sciatti.
Se anelate a nuove release dark gothic come fossero panini al salame dopo tre giorni di digiuno, provate a buttare un orecchio in direzione di
Seven Years of Famine, ma senza riporvi troppe aspettative. Il mio consiglio spassionato, in ogni caso, è di soprassedere; semmai, ascoltatevi per la milionesima volta
Draconian Times o
Wildhoney, che male non fa.