Nome che non risulterà sconosciuto ai più profondi estimatori del doom/sludge, i
Sourvein hanno all’attivo un debut album omonimo per la Game Two e numerosi devastanti tours americani in compagnia di rappresentanti dell’heavy maligno ed estremo quali Eyehategod, Weedeater, Anal Cunt, ecc.
Sfortunati nell’entrare in orbita Man’s Ruin un paio di mesi prima del fallimento della label, avrebbero potuto incassare un colpo mortale dallo split-up dell’etichetta di Kozik, vista la loro condizione di gruppo di nicchia dall’esistenza tribolata, nato per volontà del cantante T-Roy, ex dei disciolti Buzzoven. Invece l’intervento salvatore della Southern Lord ha permesso la realizzazione di questo “Will to mangle”, che non porta innovazioni nel suono della band ma vi sopperisce con una granitica compattezza che non mostra screpolature o cedimenti di sorta.
Le tematiche Sabbathiane vengono spinte in una direzione ultraheavy, un cupo blocco di dolore e disperazione accentuato dal ringhio ferale di T-Roy, urla angoscianti trasportate da cadenzati martelli ritmici e da un rifferama mortifero affidato alla grezza chitarra di Liz Buckingham, già negli sludgers Newyorkesi “13”, tanto pesante ed efficace da non aver nulla da invidiare ai colleghi maschi del settore.
Otto brani uniformi, scaglie di tenebra primordiale, poche e selvagge accellerazioni (“Zeropath”), nessuna interruzione alla monolitica marcia triturante arricchita dal tocco esperto di Billy Anderson, il produttore-simbolo delle formazioni che hanno ereditato il fardello della “real heavy music”, che rende intelligibili e sopportabili gli schianti ammorbanti di “Bang leaf” o “Carve blind”.
Sono soltanto le sfumature a distinguere le canzoni, come sono le sfumature a distinguere i Sourvein dagli altri esponenti di simile attitudine.
Meno convulsi e debordanti di Bongzilla e Church of Misery, più dinamici di Acid King e Sons of Otis, a tratti rievocano la sulfurea potenza di High on Fire, Cavity e soprattutto Soulpreacher, dai quali li divide soltanto l’uso delle violente agonie vocali.
Non cerchiamo soluzioni mirabolanti dentro “Will to mangle”, apprezziamo invece l’onesto lavoro di un gruppo schiettamente canonico, che offre il giusto grado di plumbee sonorità in grado di soddisfare le pretese degli appassionati.
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