Sulla grandezza storica dei
Necrodeath penso ci sia poco da obiettare. Qualcosa in più, invece, si può dire se parliamo del valore dei loro album in studio. Senza andare a scomodare i due masterpieces degli anni ’80, “Into the macabre” e “Fragments of insanity”, i nostri erano riusciti, con la tripletta post reunion, a rinvigorire un nome che troppo presto era stato costretto ad abbandonare le scene, e soprattutto con “Mater of all evil” e “Ton(e)s of hate” erano riusciti a ridefinire, in un certo senso, le coordinate della musica estrema, perlomeno qui in Italia, con brani decisamente taglienti e convincenti.
Tralasciando ristampe e compilation varie, già con “100% Hell” si iniziava a intuire che qualcosa all’interno del gruppo iniziava a non girare per il meglio, e, non me ne vogliano i vari membri che si sono susseguiti al suo interno, e Peso in primis, il tutto era coinciso proprio con l’abbandono del chitarrista storico Claudio, e non so fino a che punto questo sia stato un caso. Dopo aver rischiato di sprofondare definitivamente nel baratro con due album quanto meno discutibili come “Draculea” e “Phylogenesis”, fortunatamente con il successivo “Idiosyncrasy” si iniziava ad intravedere una lenta risalita, finalmente portata a termine con questo nuovo “The 7 deadly sins”, il primo album assolutamente convincente da dieci anni a questa parte.
La band, semplicemente, è tornata a fare quello che sa fare meglio, e cioè pestare di brutto sugli strumenti (“Wrath” o l’opener “Sloth”), consegnandoci una serie di brani thrash fino al midollo, ma al tempo stesso intelligenti e ben strutturati (“Greed”, “Lust”), lontani da quelle (pur minime) sperimentazioni che avevano minato il valore dei precedenti album, e soprattutto Necrodeath al 100%, freschi, spontanei, genuini. L’album insomma è ancora una volta ‘black as pitch’ e sono di nuovo presenti i riff che da sempre hanno caratterizzato il sound dei nostri, così come gli arpeggi tetri e decadenti. Da sottolineare, quindi, come Pier Gonella, chitarrista eccelso ma di estrazione power/classic, sia riuscito finalmente a ‘ragionare’ thrash, mente è inutile rimarcare come immensa ancora una volta sia la prova di Peso dietro il drum kit, così come ottima quella del suo ormai compagno di lunga data Flegias, che avvelena il tutto con la sua voce malefica, e che per la prima volta si cimenta con porzioni di brani cantati interamente in italiano. Se la scelta può far storcere il naso a molti di voi, vi assicuro che la cosa è stata dosata intelligentemente, e quindi non risulta affatto fuori luogo, anzi, sottolinea al meglio alcuni passaggi del concent dell’album.
Tornando al concept, forse questo è l’unico punto leggermente debole di questo disco, non perché sia stato sviscerato in maniera errata o superficiale, ma piuttosto per la sua ‘banalità’, se mi permettete il termine forte, in quanto già stra abusato in tutti i campi artistici. Ma è un peccato (questa volta veniale) sul quale possiamo tranquillamente passare sopra. “The 7 deadly sins” rende finalmente giustizia ad un nome storico che negli ultimi anni aveva perso splendore, e ci riconsegna una band in forma smagliante, pronta a tornare all’attacco dei palchi europei finalmente a testa alta.
Per i completisti, segnalo, in chiusura di album, due bonus track, e cioè la riproposizione di due capolavori della band, “Thanatoid”, da “Fragments of insanity”, e “Graveyard of the innocents” da “Into the macabre”. Sinceramente non ho ben capito questa mossa, per quanto i nostri da sempre hanno rispolverato i propri classici, ma in questo caso, trattandosi di un concept, io mi sarei fermato ai sette capitoli riguardanti i sette peccati capitali, e avrei evitato di allungare inutilmente la zuppa, per quanto in maniera gustosa, visto che l’attualizzazione di questi due capolavori del passato è indubbiamente gradevole. D’altra parte chi sono io per decidere una cosa del genere? Non suono certo nella band, quindi mi attengo a quanto proposto e premo di nuovo play, contento di aver ritrovato, finalmente, uno dei miei gruppi preferiti…