Distant Satellites mi ha annoiato.
Questa è la verità, brutale eppur ineludibile, tanto che per affermarla nel modo più diretto possibile mi sono imposto di sfuggire a preamboli, contestualizzazioni, giri di parole o sfiancanti introduzioni.
Certo: quando si discetta di
Anathema, band che amo e che ho seguito con cieca fiducia nel viaggio senza ritorno dal doom metal degli esordi sino al progressive post-rock attuale, la tentazione di osannare ogni nuovo parto discografico abbarbicandosi nei porti sicuri degli arrangiamenti sontuosi, delle melodie strappalacrime e delle linee vocali struggenti è forte.
D’altro canto, per onestà intellettuale non posso fare a meno di rilevare come, a mio umile parere, stavolta qualcosa si sia inceppato nella fabbrica musicale albionica.
Sono principalmente due i motivi di perplessità.
Magagna numero 1:
Distant Satellites si pone come una estensione naturale di
Weather System, da cui ripesca stilemi compositivi, feeling e strutture. Al tempo stesso, ne consolida e ripropone la formula vincente con un’insistenza ossessiva, tanto da smarrire quel cangiante dinamismo che aveva reso speciale il predecessore. Detto in parole povere: la quasi totalità dei brani si risolve in un crescendo caratterizzato da un incipit soffuso che evolve pian piano, aumentando d’intensità sino a sfociare in un’esplosione emotiva di matrice orchestrale.
Per quanto mi riguarda, il trucchetto ha funzionato con le prime due splendide tracce,
The Lost Song Part 1 e
2, la prima affidata alla voce di
Vincent e la seconda a
Lee Douglas, ha retto con la successiva
Dusk (Dark is Descending), ma ha iniziato già a mostrare la corda con la successiva
Ariel, la cui melodia portante, per quanto meravigliosa, non evolve mai; con
The Lost Song Part 3 (decisamente meno memorabile delle due sorelline), non lo nego, ho iniziato a spazientirmi. E i pezzi in scaletta sono dieci…
Magagna numero 2: definirei addirittura deficitaria la seconda metà del platter, che s'impegola in soluzioni alternative di matrice elettronica piuttosto scialbe. Dopo
Anathema, anch’essa troppo statica ma salvata in corner da un guitar solo da brividi di
Daniel Cavanagh (già che c’era avrebbe potuto disseminarne qualcuno in più lungo la tracklist), assistiamo a un crollo d’interesse che vede
You’re Not Alone, esperimento dall’incedere caotico che fallisce nell’obiettivo di creare una pur necessaria diversione (come fece la storica
Panic su
A Fine Day to Exit), in
Firelight, inutile parentesi per solo synthesizer, e la tediosa title track quali maggiori responsabili.
Poi, come ovvio, la classe è lì da sentire, così come la delicatezza e l’intensità emotiva di certi passaggi. Statene pur certi: gli autentici passi falsi sono ben diversi, e la band dei fratelli
Cavanagh non mancherà nemmeno stavolta di emozionare e commuovere la sempre nutrita fan base, com’è giusto che sia.
Eppure, la convinzione che
Distant Satellites si ponga un gradino sotto i migliori episodi della band per qualità e ispirazione in me rimane.