L’idea di una formazione “aperta”, non vincolata da pastoie stilistiche e a cui possono contribuire musicisti “esterni”, aderenti ad una comune visione
open minded del
rock, benché non proprio “inedita”, è sempre affascinante, in contrasto con troppi anni di musica costruita su una scientifica programmazione commerciale.
L’intento degli
ArrJam appare così lodevole e allettante, almeno quanto la loro prima fatica discografica (autoprodotta e promossa dalla Atomic Stuff) alimentata da tale concezione espressiva, un disco che affonda le sue radici nell’
hard degli anni settanta, per poi contaminarlo di suggestioni più “moderne”, in un turbine di riferimenti che vanno dai Grand Funk fino ai RHCP, passando per Living Colour, Aerosmith e Primus, riportando, a tratti, la memoria anche a
band meno note come Free The Nation e Scam Luiz.
Mantenere una personalità propria in mezzo a tante influenze non è mai un’impresa facile, e se i nostri ci riescono, significa che possono contare su un
songwriting sufficientemente intelligente da assemblare con spontaneità melodia e fantasia, senza cercare per forza il “colpo ad effetto” sia sotto il profilo creativo e sia dal punto di vista tecnico, anch’esso di notevole spessore.
In un programma ricco di digressioni strumentali cangianti e calorose, ben congeniate dagli ottimi Mauroman, Il Daz (membro anche dei Vicolo Inferno) e Moretti Butcher, su cui s’innesta poi la voce intensa e istrionica (forse solo un pochino carente nella pronuncia inglese) di Got, l’albo si fa notare soprattutto per il liquido magnetismo di “Out of control” (con qualcosa degli Scorpions di “Lonesome crow” nell’impasto!), per la suggestiva “Smashing on the wall” e per “Very nice”, un ibrido “piccante” ed eclettico alla maniera dei
peperoncini californiani, capace di trasfigurarsi addirittura, nell’interessante
Orchestrated Version del pezzo, in un conturbante frammento sonoro non lontano dalle velleità espositive di certo
gothic-rock.
Meno avvincente risulta il tocco “demenziale” concesso a “Screaming for”, mentre il breve recitato in madrelingua denominato “Vorrei”, pur abbastanza intrigante, finisce per rappresentare un “corpo estraneo” all’interno di un microcosmo altrimenti piuttosto “coerente”, nonostante la sua filosofia artistica all’insegna dell’eterogeneità e della contaminazione.
Feeling “antico”, gusto contemporaneo e una bella energia rendono “Session one” un ascolto piuttosto piacevole e coinvolgente, tanto che, per quanto mi riguarda, è già cominciata l’attesa per la
sessione numero due …
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