Per molti i
Chicago sono solo gli zuccherosi interpreti di “If you leave me now” e “Hard to say I’m sorry”,
ballatone davvero troppo romantiche e sdolcinate per essere apprezzate da un “vero”
rocker.
Beh, il gruppo americano è in realtà molto più di questo, nella sua lunga e gratificante carriera ha saputo solcare come pochi altri generi quali
jazz,
soul,
rock,
pop,
swing,
prog,
funky,
rhythm n’ blues e
acid-rock, tra gli sperimentalismi degli esordi (compreso quando ancora si chiamavano Chicago Transit Authority), passando per momenti di fulgida infatuazione
AOR-esque (tra la fine degli
eighties e l’inizio del decennio successivo … il manifesto in questo senso, ”Twenty 1”, è del 1991 …) e approdando ad uno stile inconfondibile, in cui il sentimentalismo (magari, in effetti, talvolta leggermente esasperato) è solo una delle tante componenti di un suono elegante, estroso, ammiccante e vellutato.
Del resto, non si sale sul podio (sul secondo gradino, dietro ai Beach Boys) delle band americane più popolari di tutti i tempi per “caso”, ed ecco che l’approdo di un colosso di siffatta levatura tra i “protetti” di “casa” Frontiers non è un fatto da poter trascurare, nemmeno se le consuetudini d’ascolto del
musicofilo di turno solitamente si affidano a sonorità maggiormente scabre ed energetiche.
“Now”, trentaseiesima fatica discografica complessiva dei Chicago, è un lavoro piuttosto riuscito, in grado in qualche modo di condensare la natura così variegata della formazione statunitense, cullando l’astante in quest’universo sonoro compiacente, sofisticato e soffuso, in grado, però, pure di ostentare importanti velleità creative (di un tipo che probabilmente sarebbe piaciuto al compianto Terry Kath, vittima di un’assurda roulette
russa!) e di affrontare con acume tematiche a sfondo politico (antica “passione” di Robert Lamm).
Dominato dai fiati, dalle armonie vocali, da tecnica sopraffina e da sontuosi arrangiamenti, il programma non evidenzia veri e propri cedimenti, e accosta gioiellini di accessibilità come la
title-track a delizie di etimologia
jazz-rock come “More will be revealed” e “Something’s coming, I know”, senza dimenticare di soggiogare i sensi con la languida “Love lives on” e di sorprenderli con le inebrianti e le
impegnate seduzioni mediorientali di “Naked in the garden of Allah”.
Aggiungete lo
shuffle critico di “America”, la melodia accogliente di “Crazy happy” e la freschezza contagiosa e
jammosa di “Free at last” e otterrete un
album che conferma le doti innate di un autentico caposaldo del settore, ancora imbattibile nel rendere la musica “facile” e “leggera” un esercizio artistico di notevole spessore e di grande suggestione emotiva.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?