E’ innegabile che in alcuni platter della storia del rock duro si senta più che in altri la puzza di zolfo, e guardate questo non si manifesta necessariamente con la durezza del suono o per i tipi di testi proposti, anzi molte volte è vero il contrario, il Diavolo odia il rumore, sono invece la quantità e la qualità degli accordi dissonanti a fare la differenza. Faccio alcuni esempi di quanto detto, Led Zeppelin (“IV”), Scorpions (“In Trance”) e appunto
Diamond Head, “Canterbury”.
Ora credo che posso saltare a piè pari la fase di presentazione della band, perché se non conoscete i Diamond Head non siete degni neanche di leggere questa recensione. Il disco è il terzo della loro discografia ed è stato scritto completamente dal cantante Sean Harris e dal chitarrista Brian Tatler, mentre per le parti di basso e batteria la cosa fù più complessa in quanto la casa discografica a metà delle registrazioni impose l’allontanamento di Colin Kimberly e Duncan Scott che registrarono solo alcuni brani mentre il resto fù completato da Merv Goldsworthy, Robbie France e Jamie Lane. Altra incredibile curiosità legata al disco è che le prime 20.000 copie stampate in vinile sono state pressate male e il disco tende a saltare, indovinate dove? Proprio nel brano To The Devil His Due. Una firma postuma?
Il cambiamento di rotta dei Diamond Head in questo disco è tale che non sembrano nemmeno quelli dei primi due storici dischi e questo fù il principale motivo per cui molti dei loro fan giudichino ancora oggi “Canterbury” come l’anello debole della loro discografia. A mio avviso è esattamente vero il contrario, “Canterbury” non solo è il più bel disco dei Diamond Head ma può essere seriamente inserito nella ristretta cerchia dei capolavori assoluti della musica rock dura. Fin dall’attacco di “Makin’Music” l’atmosfera che vi si respira è alquanto eterea, a volte ingiustamente scambiata da alcuni addetti ai lavori per musica rock leggera, al contrario le note disegnate da Harris e la chitarra inquietante di Tatler ci fanno capire come si possa essere profondi come un abisso usando melodie cromate e una voce pulita ma con retrogusto di incredibile sofferenza e angoscia. Sotto questo aspetto Harris non teme il paragone con un altro grande signore della voce, Robert Plant. Si continua con le cromature nel brano “Out of Phase” che ha anche una maggiore propensione alla velocità, ma non cede di un millimetro per quanto riguarda la profondità del suono creato. I Diamond Head con questi due brani sembrano quasi voler omaggiare il dio del rock tornando alle origini ma nel frattempo donandogli una loro personale interpretazione. Ora però ci si trova davanti a “The Kingmaker” e qui si comincia a fare realmente sul serio, questo è il pezzo che i Led Zeppelin non hanno mai composto, profondo, inquietante, anomalo, al di fuori del concetto canzone, si rimane impietriti all’ascolto perché si è al cospetto di qualcosa ma non si riesce a capire cosa. Cominci a sentirne l’odore. Si continua il viaggio con “One More Night” e di nuovo colate di cromature “nere” e una prova di Harris da antologia, preludio di quello che verrà subito dopo, “To The Devil His Due”. Qui non trovo le parole per descrivere la portata di questo momento in musica, un autentico inno dissonante al Signore dell’Abisso con Harris che si supera nel fantastico pre chorus costruito in diminuendo e il successivo improvviso stacco sincopato, maestri . E qui l’odore è proprio forte. Si prosegue con una doppietta fenomenale iniziata da “Knight Of The Sword”, un omaggio dei nostri al signore del caos, Arioch, protagonista dei racconti di Michael Moorcock, dove si raggiungono i più alti torrioni dell’epos e Tatler piazza un assolo da non dormirci la notte e subito dopo si è catapultati nel più profondo e sperduto oriente in Ishmael e se si chiudono gli occhi ti ritrovi proprio lì nell’antica Babilonia spettatore inerme del posto dove si decideranno i destini del nostro mondo. Lo senti ancora, sempre più forte. Siamo alla fine, dopo “I Need Your Love”, appare, preannunciata da un intro di piano, “Canterbury”, un viaggio tra le nebbie più fitte delle nostre più intime paure dove tutto diventa possibile e alla fine, quando è ormai troppo tardi, scopri che si tratta solo di una irrefrenabile corsa verso la pazzia più pura. Una cattedrale dell’animo, ormai perduto e condannato alla fine del suo viaggio.
Di solito no amo il track by track, ma questa volta è stato un vero piacere farlo, perché ogni oncia di questo disco varrebbe infinite discussioni ed elaborazioni. Non vi nascondo che mentre stò scrivendo questa recensione lo stò riascoltando e un brivido stà scorrendo lungo la mia schiena. Si perché l’opera dei Diamond Head è capace di entrarti dentro e non mollarti più. Non lo troverete mai nelle classifiche dei più grandi dischi del genere, non troverete mai delle recensioni altisonanti e pompose per “Canterbury,” quasi mai viene citato anche nelle discussioni dei forum più specializzati o nelle riviste di settore, snobbato e sottovalutato dai più. Ma sono assolutamente convinto che se il Principe delle Tenebre esiste e si trova in qualche luogo, la sera prima di addormentarsi ascolta Canterbury dei Diamond Head. Ora lo sentite l’odore?
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri
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