La prima volta che vidi “Snow Giants”, l’opera di Frank Frazetta e anche l’artwork di questo disco fù nel 1991, quando comprai “Hard & Heavy, 133 TOP Album”, di Gianni della Cioppa. Il buon Gianni come copertina di quella sua incredibile antologia di tutta la musica dura scelse la fusione di due cover,quella dei Deep Purple (In Rock) e quella dei
Dust (Hard Attack), in seconda pagina mi sembra c’erano gli Emerson, Lake & Palmer. Purtroppo quel libro non ce l’ho più, prestato e mai più tornato, però credo di averlo imparato a memoria o quasi, perché rappresentava e rappresenta una ideale base su cui formare la propria cultura all’interno dell’universo hard & heavy, si perché come è impossibile iniziare a costruire una casa dal tetto è altrettanto impossibile capire questa musica se non si parte dalle origini. Si rischierebbe di dire una idiozia dietro l’altra senza neanche rendersene conto. E i Dust sono l’origine di tutto. Trio formato nel 1968 da tre liceali americani a nome Richie Wise , chitarra e voce (colui che produrrà i primi album dei Kiss), Kenny Aaronson, basso (che lavorerà in futuro con Bob Dylan, Billy Idol e Blue Oyste Cult), Marc Bell, batteria (che poi diventerà Marky Ramone, devo aggiungere altro?).
Perché sono l’origine di tutto? Perché mai prima di questo platter si era varcata la vera soglia, si era passati dall’hard all’heavy e si acquisiva quell’attitudine tipica dell’heavy metal. Certo band come Led Zeppelin, Black Sabbath, gli stessi Deep Purple, ma anche Andromeda, MC5, Atomic Rooster, High Tide, Budgie, avevano gettato enormi semi al riguardo, ognuno con le sue sfumature. Ma i primi ad aprire la porta del metal furono nel 1971 i Sir Lord Baltimore con il loro incredibile Kingdom Come(primo gruppo della storia ad essere definito heavy metal, sulla rivista Creem) ma i primi a varcare in maniera definitiva quella soglia furono i Dust di Hard Attack. I Dust erano heavy metal, dalla copertina ai testi fino al suono, infatti per la prima volta nella storia del rock duro il basso da elemento di accompagnamento diventa elemento trascinante come e più della chitarra,ad onor del vero già Andromeda e Blue Cheer lo avevano fatto ma in modo sincronico con le chitarre, nei Dust il basso di Aaronson diventa protagonista assoluto e il suono infatti si incupisce e si indurisce, una lezione che un certo Steve Harris deve aver imparato molto bene. Ma dove i nostri si distanziano da tutta la scena a loro contemporanea è nell’attitudine dei brani, quasi scompare il riff cadenzato, sostituito da fluide cavalcate che si trasformano in veri e propri muri sonori, la batteria esprime una potenza incredibile (la prima batteria epic della storia) e le melodie rifuggono dalla base del blues classico andando a pescare ispirazione da realtà interiori o da epiche gesta di combattimento o mondi sconosciuti. Pull Away/So Many Times, attacca il disco come se fossero i Jethro Tull dopati con gli steroidi, le continue rullate, il basso trascinante, le sfuriate metalliche della sei corde e la voce evocativa di Wise danno il battesimo ad un genere tutto, mentre con Walk in the Soft Rain si consolida la nascita di questo nuovo mostro musicale.
Ma è con il terzo e quarto solco che si raggiunge il punto di non ritorno. Thusly Spoken, all’apparenza una soft song dalla grande atmosfera, in realtà cela una delle melodie più propiamente metalliche della storia abbinata ad un testo raggelante dove l’aurea del maligno copre tutto e tutti. Una visione del male che trionfa sul bene, più efficace di qualsiasi disco black mai pensato da mente umana. A fare da complemento a questa atmosfera ci pensa la successiva Learning to Die. Può un brano contenere un intero genere? Ascoltando il brano in questione la risposta non può essere che affermativa, paradossalmente l’heavy metal raggiunge qui la sua definitiva iniziazione e qui poteva tranquillamente morire. Testo dark/epic (in riferimento alla copertina), velocità stratosferica, batteria che spinge come una forsennata dall’inizio alla fine e una linea melodica che racchiude in se stessa tutto il repertorio dei Manowar, dei riff a vortice che anticipano di 8 anni tutto quello che avrebbero fatto i Maiden e un break centrale rimasto unico nella storia del metal. Il risultato? L’evocazione vera e propria di una battaglia antica riportata in musica talmente bene da arrivare a sentire il profumo del sangue del proprio nemico ormai con le braccia mozzate. “Imparando a morire” è tutto questo. L’atmosfera si tranquillizza un po’ con la succesiva All in All che ritorna a parlare con linguaggio Hard Rock e diventa riflessiva con la breve e acustica I Been Thinkin’, ma è con lo strumentale Ivory che il nostro trio innalza un altro mattone per la sua immortalità. Quasi tre minuti di sferragliate metal, tra chitarre trascinanti, batteria pulsante e basso che evoca antichi anfratti segreti, provate a sentirvi in sequenza questo pezzo di musica e poi lo strumentale degli Helstar, (Whore) of Babylon, preso dal disco A Distant Thunder, rimarrete pietrificati dall’assonanza di spirito, attitudine ed energia sprigionata. Comunque, introdotta da un pezzo atipico (per i Dust) di epic hard come How Many Horses, la strada giunge alla fine con il solco dal programmatico titolo Suicide, dove i nostri danno sfogo a tutte le loro frustrazioni, aggiungendo alla furia cieca che li guidava anche la pesantezza pachidermica di un primordiale doom che trova la luce nella incredibile accelerazione centrale, in parole povere un’anticipazione dei Candlemass di Epicus Doomicus Metallicus.
Ho sempre pensato che il mondo della musica dura ci abbia detto tutto quello che aveva da dirci arrivando al 1980 con l’uscita di Iron Maiden, il resto seppur esaltante (soprattutto negli ’80) è puro approfondimento, ma quando mi capita di ascoltare dischi come questo ho l’impressione che dovrei rivedere quella data in difetto e continuare ad approfondire un’epoca che tutto ha dato ai nostri ascolti preferiti, perché è lì l’epicentro di ogni cosa dove le energie lavoravano con maggiore impeto dove le uscite come questo Hard Attack portavano il marchio a fuoco dell’ORIGINALITA’ e la deflagrazione di un’onda d’urto al suo massimo picco, un’onda che prosegue la sua marcia anche oggi, che forse è diventata più schiuma che spinta ma che continua a farci sognare e a regalarci a volte momenti di pura esaltazione. Quest’onda però ci chiede solo di non dimenticare dove tutto è iniziato, di non dimenticare la caduta del gigantesco masso che l’ha provocata,un masso che aveva inciso sopra a caratteri cupitali anche il nome DUST.
A cura di Andrea “Polimar” Silvestri