Signore e signori, i Grave Digger sono tornati e lo fanno spazzando via tutto e tutti con un album che ci fa subito scordare il deludente predecessore.
Alla chitarra al posto di Uwe Lulis troviamo niente meno che Manni Schmidt, ex-Rage. La band abbandona i concept medievali e si getta verso tematiche oscure ispirate ai racconti di Edgar Allan Poe. La differenza tra "The Grave Digger" e gli ultimi tre album si sente sin dalla prime tetre note di piano che aprono "Son of Evil"; il song writing appare subito decisamente più ispirato e la presenza di un chitarrista come Manni si fa prontamente sentire: non ci sono più, infatti, i soliti banalotti riff di quattro accordi, bensì sequenze distruttive di note che creano un muro sonoro impressionante.
"Son of Evil" è un mid-tempo che con le sue sonorità ci fa tornare immediatamente ai cupi brani di "Heart of Darkness" e "The Reaper" grazie sopratutto alla voce, ritornata finalmente malvagia, del carismatico singer Chris Boltendahl. Unica ripresa della band dagli ultimi tre album sono i maestosi cori che però ben si adattano alla nuova veste dei Grave Digger.
Segue proprio "The Grave Digger", il pezzo senza dubbio migliore dell'album; qui è pesantissimo l'apporto di Manni Schmidt nella stesura di un pezzo che ha infatti più volte richiami a sonorità tipiche dei Rage. Le tastiere si limitano invece a creare un minimo tappeto di sottofondo che certo non defalca il carattere aggressivo del lavoro.
Stefan Arnold alle pelli si riconferma uno schiacciasassi come pochi senza però scadere nella monotonia e nella banalità come accade invece spesso nel genere. Finalmente siamo al cospetto di brani arrangiati nel minimo dettaglio e impreziositi da fill di chitarra sparsi qua e là, doppiature e soli magistrali lontani anni-luce dalle composizioni mediocri degli ultimi lavori.
Delle tenebrose tastiere ci introducono a "Raven", terzinato oscuro dal refrain memorabile, supportato da una sezione ritmica possente e d'impatto, mentre spetta invece alla chitarra claustrofobica di Manni aprire le porte alla pesante "Scythe of Time", ottimo brano lugubre che rappresenta un deciso passo indietro verso i lenti gravi di "The Reaper". Netti richiami ai Rage anche con "Spirits of the Dead" il cui riff iniziale sembra proprio appartenere alla band di Peavey; i Grave Digger conservano però una fortissima dose di originalità proprio grazie al cantato unico ed inimitabile di Chris Boltendahl, oggi in forma come non mai.
Spaccaossa anche il successivo up-tempo, "The House", in cui i cinque riportano indiscutibilmente l'ascoltatore al passato sia per la struttura immediata del pezzo, sia per la cattiveria di quello che ritorna ad essere puro ed incontaminato heavy metal. Ecco poi arrivare la cadenzata "Sacred Fire", brano un po' troppo ripetitivo che si impone tuttavia per l'ottimo chorus sostenuto da una devastante azione di chitarra e batteria.
Si punta nuovamente alla potenza con "Funeral Procession", song inconsueta dal refrain scioccante che devasta per energia e spietatezza. Non si abbassa certo il tiro con la successiva "Haunted Palace" in cui arriva inaspettato il ritornello quasi smielato ma furbescamente inserito in un contesto atrocemente distruttivo. Tocca alla semi-ballad "Silence" il compito di chiudere nel migliore dei modi; stupisce sicuramente l'interpretazione vocale che ci conduce mano nella mano al refrain indimenticabile e ad una sorta di duetto tra la voce pulita e quella roca di Chris.
Un album, in conclusione, che potrebbe spiazzare i fans da poco acquisiti della band, ma che certo non deluderà i sostenitori di lunga data proprio per il netto ritorno a sonorità più aggressive, cupe, tenebre e maligne come quelle che caratterizzavano gli album dei primi anni novanta. Aspettavo da tempo di poterlo dire e ora lo posso fare senza la benché minima esitazione: ragazzi, finalmente... THE REAPER HAS RETURNED!
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