Triste è bello.
Non so spiegarmene il motivo, ma da sempre subisco l’insopprimibile fascino della tristezza, sensazione di cui faccio volentieri a meno nella “vita vera”, ma a cui non riesco a rinunciare nelle mie frequentazioni in ambito musicale.
Tutto iniziò da bambino, durante i viaggi in macchina coi miei spesi nell’attesa che si decidessero a inserire una cassetta di
De André. Anni dopo, per fortuna, imboccai il sentiero giusto, e invece d’indirizzarmi verso la
Malinconoia di
Marco Masini scelsi di chiedere asilo a
Katatonia,
Paradise Lost,
Anathema e
Type O Negative.
Eppure, la mia sete di abbattimento sonoro non si era ancora estinta, e anzi mi spingeva a rovistare ancor più nell’underground.
Lo feci: vagabondai in lungo e in largo per i più oscuri anditi della nostra musica prediletta, scoprendo così
Varg Vikernes e la sua nera arte. Incamminandomi lungo quella direttrice, non impiegai molto a raggiungere i bui reami di
Shining,
Silencer,
Austere,
Nyktalgia,
Lifelover e
Forgotten Woods.
Mi resi subito conto di aver infine raggiunto la mia destinazione finale.
La trasposizione definitiva della tristezza in note.
Il depressive black metal.
Fra i numerosi esponenti che negli ultimi tempi hanno popolato il genere, ho riservato particolare attenzione ai cinesi
Ghost Bath: il loro full d’esordio, dalla bellissima copertina, mi aveva molto colpito.
Funeral si appostava a metà del guado, attingendo così sia dalla corrente primigenia e minimale del suicidal sia da quella più attenta a costruzione melodica e arrangiamento sviluppatasi negli anni. Il risultato era sorprendente, e gettava i semi per qualcosa di ancor più grandioso.
Semi che, dopo un anno appena, hanno fatto sbocciare questo
Moonlover.
L’artwork è ancora una volta stupendo, mentre il sound ha compiuto un ulteriore passo verso influenze shoegaze, post e wave; dunque, s’ingentilisce la distorsione e si sciolgono le lancinanti urla del singer in un contesto musicale vicino alla nostalgica scioglievolezza di
Deafheaven e
Germ.
Proprio il nome di queste due band spunterà nella vostra testolina in occasione dell’opening track:
Golden Number, che segue all’intro
The Sleeping Field, si erge a manifesto delle potenzialità dei
Ghost Bath.
Incalzante e maestosa, colma di indimenticabili linee di chitarra che suonano come un lungo addio, la canzone ci travolgerà con un impatto emotivo di rara intensità, per poi abbandonarci a terra stremati e chiudere con due minuti di raccolte dissertazioni pianistiche.
Uno dei brani cardine del 2015 per il sottoscritto.
Happyhouse è più grezza, più tipicamente black, ma si rivelerà episodio isolato: il feeling liquido e sospeso della successiva
Beneath the Shade Tree, così come la soffusa parentesi a nome
The Silver Flower Part I, rivendicano la natura introspettiva e intima dell’opera… e denotano, a mio avviso, una pianificazione non ottimale della tracklist: inserire due soffuse strumentali una dopo l’altra a metà scaletta non mi sembra l’idea del secolo, ma tant’è.
Meno male che interviene la seconda parte del
Fiore Argenteo a ridestare l’attenzione. Ottimo brano, che fa il paio con la conclusiva
Death and the Maiden, tanto frenetica quanto mesta.
Moonlover, l’avrete capito, mi è piaciuto non poco; forse, dopo il folgorante incipit, mi sarei atteso ancor di più, ma i cinesi hanno margine e tempo per migliorare… se non si suicidano nel frattempo.
“
La tristezza vien vissuta come un valore negativo,
Mentre invece va vissuta come un valore positivo.
Non commettete l'errore di denigrare la tristezza”.
Io mi fido ciecamente di voi, cari
Elii, e infatti mi crogiolo nella tristezza riascoltando
Moonlover per l’ennesima volta, toh.