Costruire a tavolino il proprio sound, bilanciandone le componenti come farebbe un alchimista coi suoi alambicchi, può essere considerato arte?
Probabilmente no.
Può quantomeno condurre alla creazioni di buona musica?
Direi proprio di sì.
Il percorso discografico dei
The 69 Eyes è quanto di meno spontaneo ed istintivo possiate trovare nell’intero panorama rock: il passaggio dal graffiante sleaze degli esordi al morbidissimo dark gothic di
Wasting the Dawn, potete scommetterci, nulla aveva a che spartire con concetti quali “insopprimibile urgenza artistica” o “rinnovata ispirazione creativa”.
Parlerei piuttosto di calcolo.
Calcolo che, tuttavia, si è rivelato quantomeno accurato, posto che i Nostri hanno ottenuto un considerevole riscontro commerciale grazie all’immagine da playboy decadenti e oscuri -e tamarri, oserei aggiungere-, riuscendo nel frattempo anche a realizzare dischi più che discreti come il già citato
Wasting the Dawn e il successivo
Blessed Be.
L’ideale trittico della svenevolezza vampiresca venne completato, nel 2002, da
Paris Kills, che la
Nuclear Blast decide oggi di ristampare in occasione del venticinquesimo compleanno della band di
Helsinki (auguri!).
Non me ne vorrà la label teutonica, ma non ho mai considerato il sesto full lenght dei
The 69 Eyes fra i più riusciti della loro nutrita discografia: suona un po’ come un
more of the same, nulla aggiunge rispetto ai predecessori -che peraltro potevano contare su maggior incisività di melodie e arrangiamenti- e soprattutto si presenta in una veste davvero troppo soft e monocromatica.
I pezzi paiono spesso statici, ancorati sui tempi medi, e si percepisce in modo distinto la mancanza di guizzi vincenti alla
Brandon Lee -giusto per citarne una- capaci di solleticare l’attenzione dell’ascoltatore.
Non aiutano la causa del coinvolgimento una sezione ritmica al minimo sindacale in termini di varietà e una produzione più leggera di un film di
Adam Sandler, che conferisce risalto alle avvolgenti keyboards e al baritonale timbro di
Jyrki ma ammansisce oltremodo le chitarre, miagolanti in sottofondo più che ruggenti.
Si badi, qualche zampata il finnico quintetto riesce comunque a piazzarla: penso all’opener
Crashing High, sorta di matrimonio sonoro tra i
The Cult e
Billy Idol, a
Grey, che ci fa dono di un’insperata distorsione, al felpatissimo singolo
Dance d’Amour -titolo e lyrics, però, di raro imbarazzo- o ancora alla nostalgica
Still Waters Run Deep, forse l’apice emotivo del platter.
A voler ben vedere, a parte un paio di episodi sottotono (
Don’t Turn Your Back on Fear,
Betty Blue) ogni singolo brano si lascia apprezzare, ma è la fruizione complessiva dell’opera a risultare pesante, a causa dei vizi sopra denunciati e di una certa ripetitività di fondo.
Paris Kills non è invecchiato benissimo, e non bastano le bonus track di questa nuova edizione (la trascurabile
You’re Lost Little Girl e i remix di
Crashing High e
Stigmata) a risollevarne sorti e giudizio.
A mio avviso sufficiente, ma nulla più.
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