Se vi piacciono i Survivor e i Pride Of Lions non esitate a impossessarvi quanto prima di questo “Risk everything”.
La recensione, in tempi di frenesie e “cinguettii” assortiti, potrebbe anche finire qui, condensando in maniera massimale l’essenza di un disco edificato sulla penna sfolgorante del venerabile
Jim Peterik e su una sua ennesima scoperta nel campo della fonazione modulata, Mr.
Marc Scherer, dotato di un’ugola adamantina (sarà per il suo passato da gioielliere?) e di un
range vocale capace di coprire ben cinque ottave.
Facendo parte di una “generazione” che mal digerisce (in campo musicale, soprattutto …) tutta questa deplorevole
smania, vi toccherà comunque sorbirvi qualche indicazione supplementare, ma effettivamente bisogna anche ammettere che le perentorie affermazioni dell’introduzione riassumono assai efficacemente i contenuti di un disco inevitabilmente “figlio” di quella consolidata impostazione stilistica, per qualche “modernista” ormai sorpassata e per la stragrande maggioranza degli appassionati del genere identificata (fortunatamente) come un’immarcescibile fonte di godimento
cardio-uditivo.
Sarebbe alquanto facile mettere in discussione la necessità di un “gruppo” che per certi versi appare come una reiterazione dei Pride Of Lions (con alcuni collaboratori della
band impegnati a contribuire all’impresa) e che in pratica non aggiunge nulla alla carriera di Peterik e al suo riconoscibilissimo
trademark artistico, tuttavia è sufficiente ascoltare le prime note della suggestiva
title-track dell’albo per veder dissolta istantaneamente ogni eventuale disquisizione critica, accogliendo con entusiasmo il primo di undici nuovi frammenti di pulsante empatia, “familiari” nelle modalità operative eppure spesso ancora “sorprendenti” per la loro imperiosa intensità emotiva.
AOR ottantiano, enfasi “cinematografica” e una laringe davvero “educata” e cristallina (qualcosa tra Jimi Jamison e Toby Hitchcock) sono gli ingredienti fondamentali di un programma parecchio coinvolgente e appassionante, semplicemente esaltante quando la capacità dei nostri di creare grandi atmosfere evocative raggiunge il suo
climax (“Chance of a lifetime”, l’incredibile “Cold blooded”, la Styx-
iana "Thee crescendo”, la contagiosa “The dying of the light” e la scattante "Brand new heart”) e “solo” molto competente e appagante in taluni episodi (menzione comunque necessaria per l’istrionica "Desperate in love”) dove l’ombra del manierismo s’impossessa del proscenio.
Capitolo a parte lo meritano i momenti romantici dell’opera, un’altra “specialità della casa”: "How long is a moment” e "Broken home” (meglio la seconda della prima …), pur nella loro perfezione “formale”, non sono riuscite a scatenare quell’irrefrenabile
brividino d’illanguidimento che da anni (
ahimè) rappresenta per il sottoscritto l’attendibile spia di un profondo trasporto sentimentale.
Troppo “severi” nel giudizio? Forse … ma è anche vero che al cospetto di un maestro come Peterik non si può proprio evitare di essere esigenti, aspettandosi sempre l’
hit devastante e memorabile … una “condanna” che non impedirà ai suoi tanti estimatori di riconoscere ancora una volta le qualità superiori di un progetto impregnato di emozione e velato da appena un pizzico di “mestiere”.
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