Pesi massimi di Oakland, gli
Abstracter rappresentano l’ala più estrema (“crust”) dello sludge. Tonnellaggio da sfiancamento, riff come macigni e feedback a manetta, con il contorno di vocals urlate e dissonanti. Quaranta minuti di assalto, spalmati in quattro lunghissimi brani. Ma i californiani hanno l’intelligenza di inserire qualche passaggio più sfumato (“Open veins”), dove il caos metallico viene diluito in atmosfere malinconiche e disperate. Brevi istanti, prima di ricominciare a gonfiare i muscoli e a mostrare la faccia truce e bellicosa.
Il risultato è dignitoso, ma ancora troppo grezzo. Consigliato solo ai completisti del settore.
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