Anche voi, sbirciando l’artwork di copertina, vi siete lasciati andare ad una smorfia perplessa e ad una esclamazione tipo “
Oibò, chissà cosa gli è saltato in testa”?
Se, come il sottoscritto, avete ritenuto il feeling gioioso dell’immagine inappropriato per un album
black metal, sappiate che mai come in questo caso le apparenze ingannano.
L’opera del visual artist
Josh Graham, famoso per la collaborazione coi
Neurosis, si basa su una fotografia scattata a
Christa McAuliffe, che altri non era se non una insegnante selezionata dalla
NASA nell’ormai lontano 1986 per viaggiare nello spazio a bordo dello shuttle
Challenger.
Presumo che la maggior parte di voi lettori rimembri ancora l’esito di quella missione.
Per gli altri: lo shuttle esplose 73 secondi dopo il lancio.
Solo ora abbiamo gli elementi necessari per decriptare quell’immagine traboccante di una felicità beffarda e passeggera, destinata a tramutarsi, nel giro di pochi istanti, in un apocalittico coacervo di fuoco, morte e cenere.
Proprio le riflessioni sulla caducità dell’esistenza, sul carattere effimero della gioia e sull’ineluttabilità del cambiamento contraddistinguono il secondo full lenght della band statunitense (a dispetto del moniker in idioma svedese).
La musica riflette con efficacia la cupezza dell’apparato lirico/concettuale, rivelando un generale inasprimento dei toni rispetto al passato.
Accantonate le partiture
classic doom dell’EP d’esordio (
Vattnet Viskar, 2012) e messe in naftalina le soffuse parentesi atmosferiche che contraddistinguevano il precedente
Sky Swallower, il nuovo
Settler elabora un ibrido tra
black metal e
post-sludge.
Un ibrido potenzialmente interessante, eppur ancora instabile ed in fase di perfezionamento. Non sempre le due anime sonore convivono in modo armonioso, ed in alcuni frangenti si percepisce una generale indecisione di fondo circa la strada giusta da imboccare.
Da ciò scaturisce un songwriting piuttosto altalenante, che vede episodi positivi come l’opening track
Dawnlands o
Glory (forse la migliore) spartire il proscenio con composizioni talora convulse (
Heirs) talaltra insipide (
Yearn).
La stessa produzione, curata da
Sanford Parker (il quale ha lavorato, tra gli altri, con
Yob,
Pelican e
Nachtmystium), fallisce nel tentativo di creare un marchio distintivo in termini di sound, contribuendo così a far scivolare
Settler nel traboccante barattolo che reca la scritta “
album di transizione”.
Resto convinto che i
Vattnet Viskar posseggano doti superiori alla media, ma non nascondo che mi sarei atteso da loro una maturazione e una progressione più marcate.
Occorre senz’altro sbrigarsi: il congestionato mercato odierno non ha tempo da concedere a giovani band di belle speranze.
La famigerata prova del terzo disco sarà quella decisiva.
Non è ancora stato scritto nessun commento per quest'album! Vuoi essere il primo?