A suscitare la mia curiosità nei confronti di questo album, è stato dapprima l'artwork, vista la sua somiglianza con la statua del dio Moloch che è stata usata nel film "Cabiria" del 1914 e ora conservata presso il Museo Nazionale del Cinema di Torino.
In reatà l'immagine in copertina si rifà al titolo dell'album: la valle dell'Hinnom, quella Gehenna dove secondo l'Antico Testamento i re di Giuda Acaz e Manasse avrebbero praticato il culto del dio Moloch, luogo dove i
Risen Prophecy ci conducono con questo concept album.
Al di là di ogni disquisizione cinematografica e storica-religiosa, sono altri i riferimenti cui ci si può rifare parlando dei Risen Prophecy. Infatti, questa formazione inglese, in attività da una decina di anni è arrivata solo ora al secondo album e dato che è uscito per la Metal On Metal Records, "Into the Valley of Hinnom" non poteva che guardare al Metal tradizionale, per quanto non tra le schiere di quelli più semplici e immediati.
Sei i titoli presenti sul Cd, e dato che la prima e l'ultima traccia svolgono lo scomodo ruolo di brevi intro e outro strumentali, il grosso del lavoro se lo smazzano gli altri quattro brani, con la titletrack che arriva a ben undici minuti di durata.
Ma non scherza nemmeno la prima vera canzone del disco, quella "Brood of Vipers" che nei suo otto minuti è la prima testimonianza dello stile dei Risen Prophecy, un songwriting affilato, quasi schizoide, fortemente caratterizzato dal cantato di Dan Tyrens, altrettanto cangiante, in grado di alternarsi tra toni alti, riottosi e declamatori senza particolari problemi.
Non è certo semplice trovare dei temini di confronto, ma restando dalle loro parti si potrebbe tentare con i Sabbat (quelli con Martin Walkyier) e gli Hell, mentre oltreoceano con il Power & Speed Metal made in USA, tra i primi Liege Lord (con Andy Michaud alla voce), Agent Steel e Iced Earth, ma anche, tornando sul vecchio continente, qualcosa di King Diamond.
I Risen Prophecy non cedono alle soluzioni più elementari, nemmeno su "Knowing Nothing" e "To the Wolves", figuriamoci poi sulla lunga ed eclettica titletrack, dove riecheggiano i Testament (nei momenti più Thrash) e persino gli Iron Maiden (in quel break in odore di "“Rime of the Ancient Mariner").
Coraggiosi - in alcuni casi forse pure troppo - ma sicuramente con un gran potenziale.
You want it all, but you can't
read it
It's in your face, but you can't
read it
What is it? It's it
What is it? ... it's the
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