Devo ammetterlo in tutta sincerità, “Bad magic”, il nuovo lavoro in studio dei seminali
Motorhead mi ha lasciato davvero spiazzato. In cuor mio, soprattutto dopo aver ascoltato il singolo apripista “Thunder & lightning”, una vera mazzata sui denti, ero certo che il nuovo album sarebbe stato come minimo al pari dei suoi due (ottimi) predecessori. Quello che mi faceva sorgere qualche dubbio era lo stato di salute, in sede live, non tanto della band quanto del suo master mind Lemmy, ormai arrivato, IMHO, decisamente alla frutta (se non ci credete date uno sguardo su YouTube alla loro esibizione al Glanstonbury Festival di quest’anno: brani rallentati all’inverosimile, fiato a zero, mano tremolante, strofe cantate fuori tempo, ma soprattutto, cosa più grave in assoluto, non si è assolutamente reso conto, fino alla metà del brano, che invece di suonare e cantare “Overkill”, come Campbell e Dee stavano facendo, lui stava intonando “Ace of spades”, peraltro già suonata poco prima…).
Come vedete, quindi, i presupposti per essere quanto meno dubbioso c’erano eccome. E invece “Victory or die” spazza subito via ogni dubbio, e lo fa in maniera arrogante, irriverente, come è giusto aspettarsi dai Motorhead. È poi la volta della già citata “Thunder & lightning”, classico brano veloce e diretto, seguita dalla più calma e canonica “Fire storm Hotel”, a cui fa seguito, a sua volta, “Shoot out all of your light”. E se quando il brano inizia avrete un senso di deja vu è normalissimo, in quanto la locomotiva Mikkey Dee parte in quarta con un’intro decisamente simile al ritmo portante di “Sacrifice”. Come avrete capito la autocitazioni non mancano, ma a noi (o perlomeno, a me) sta bene così, in quanto non solo stiamo parlando dei Motorhead, che hanno fatto dell’immobilismo stilistico e della coerenza il proprio marchio di fabbrica, ma soprattutto perché in ogni caso i brani spaccano il c**o ai passeri, come direbbero all’Accademia della Crusca. I pezzi suonano freschi e non sfigurano affatto rispetto a quelli di “The world is yours”, capolavoro del 2010, e rispetto a quelli dell’altrettanto bello “Aftershock”, pubblicato solo due anni fa, tant’è che se non fosse per quanto già detto prima per quanto riguarda i live, si potrebbe senz’altro parlare di una seconda (l’ennesima) giovinezza per la band.
Il disco procede con “The devil”, ancora una volta un brano più lento, che vede la partecipazione in fase solista niente meno che di
Brian May, da tempo amico di Lemmy e della band, e con le frizzanti “Electricity” e “The eye”, prima che arrivino i due veri e propri capolavori dell’album: “Teach them how to bleed” (chiusa col tipico giro blues, quasi a voler rimarcare le origini dei nostri) e “Till the end”. Nel primo caso ci troviamo al cospetto del classico brano dinamitardo di Lemmy e Co., dal basso a carro armato: impossibile rimanere fermi con la testa… Mentre nel secondo caso si tratta di una sorta di ballad (passatemi il termine) malinconica e decadente, veramente molto particolare e toccante. Siamo quasi alla fine, ma c’è ancora il tempo per deliziarci con “Tell me who to kill”, ruffiana e in your face come piace a noi, “Chocking on your screams”, che mi ha ricordato vagamente “Orgasmatron” come atmosfere, cupe e decadenti, e la conclusiva “When the sky comes looking for you”, forse l’unico brano leggermente sottotono.
Che i Motorhead c’abbiano abituati da sempre alle cover non è una novità… ma vi sareste mai aspettati che coverizzassero niente meno che “Sympathy for the devil” dei
Rolling Stones? Sinceramente ho preferito altre cover fatte da Lemmy in passato, questa è comunque piacevole, ma mi sarei aspettato una personalizzazione maggiore. C’è anche da dire che si tratta di un brano molto particolare, per cui non è semplice renderlo proprio senza stravolgerlo o rovinarlo, quindi tutto sommato va bene così…
Non credo ci sia molto altro da aggiungere. Se questo sarà o meno il canto del cigno della band non sta a me dirlo, non sono Nostradamus. Fatto sta che se anche così fosse i nostri metterebbero il sigillo alla loro quarantennale carriera in maniera assolutamente dignitosa ed entrerebbero di diritto nella storia del rock (cosa che peraltro hanno già fatto) a testa alta, non come alcuni loro colleghi che nei rispettivi ultimi album hanno fortemente rischiato di affossare il proprio nome con pubblicazioni indegne. Lemmy è sempre stato visto come una figura immortale. Abbiamo constatato, come già detto in apertura, che così non è, perlomeno dal vivo. In studio, invece, ancora riesce a mantenere inalterato il proprio carisma e il proprio status di leggenda vivente, e “Bad magic” è qui a dimostrarlo…