Londra, 1980.
Inquieto, un uomo alza gli occhi alla volta celeste. Ha in mano una copia di "Iron Maiden". California, 1985.
Incredula, una giovane archeologa fissa il cielo. Ha appena riassaporato le emozioni del concerto alla Long Beach Arena.Spazio, 2010.
Spaurito, un astrofisico guarda nel vuoto. Ha nella mente l'immagine dell'alieno sulla copertina di "The Final Frontier". Torino, oggi.
Sconcertato, un fan scruta l'artwork di "The Book of Soul". Ha appena ascoltato il nuovo album degli Iron Maiden.È un libro, un semplice libro antico.
Ma è il Libro delle Anime.
E il suo segreto è il nostro destino.
[Cit. Glenn Cooper]
Il nuovo album degli
Iron Maiden esce in Estate, e giusto un anno fa, in spiaggia, leggevo "Il Libro delle Anime" di Glenn Cooper. Non so se sia stato o no un presagio, va da se che alla fine dell'ascolto di "The Book of Souls" le sensazioni sono più o meno le stesse provate durante la lettura del romanzo di Cooper.
Buone intuizioni e frangenti interessanti, qualche passaggio sfilacciato e affrontato in maniera scontata e autoindulgente, con diversi dejà vu o momenti di stanca e che si lascia sì ascoltare, ma sicuramente non tutto di un fiato, necessitando piuttosto di qualche attimo di pausa.
Già, per l'occasione gli Iron Maiden realizzano, infatti, un lavoro che sfora i 90 minuti di durata, sviluppati in 11 capitoli, di cui 3 vanno oltre i 10 minuti, con "Empire of the Clouds" che addirittura si attesta sui 18.
L'opener è "If Eternity Should Fall" che per mood e andamento ricorda più il repertorio del Dickinson solista che quello dei Maiden, e lo fa con buoni risultati alimentando così le sensazioni positive, ma quanto tocca al primo singolo, "Speed of Light", si scopre largamente scontato pur nelle sue tentazioni rockeggianti, una posizione aggravata dalla prova fuori misura da parte di Dickinson, il quale comunque si riscatta andando poi a reggere le fila di una "The Great Unknown" che scivola via sommessa e senza
colpo ferire. Si va poco lontano anche con la successiva "The Red and the Black", altra fiera della banalità, una pulsazione ritmica bradicardica, soluzioni vocali abusate e chitarre inoffensive, il tutto stemperato per 13 minuti. "When the River Runs Deep" per qualche istante sembrerebbe portarci indietro ai tempi di "Somewhere in Time", con un andamento dinamico e rockeggiante dove si fa sentire la mano di Adrian Smith e ritroviamo il miglior Dickinson, finora troppo spesso altalenante, più che altro per la scelta scellerata nell'affrontare alcuni pezzi, con alcune forzature che si potevano sicuramente evitare. La titletrack, che chiude il primo CD, poi è uno di quei brani in grado di far eccellere questo straordinario vocalist nelle sue atmosfere alla "Dance of Death", ma viene tirata troppo per le lunghe.
Il compito di dare il via al secondo dischetto tocca alla battagliera "Death or Glory", con Nicko McBrain subito in affanno e la coppia Smith/Dickinson a dare vita a una canzone che potrebbe benissimo essere una outtake da "Accident of Birth". Ecco che "Shadows of the Valley" ci riconduce al 1986 tanto le sue prime note riecheggiano "Wasted Years", poi a seguire emergono altre autocitazioni per un episodio che scorre e si lascia comunque ascoltare con piacere. Lo stesso non ci può dire per la seguente "Tears of a Clown", che anche nel suo essere dedicata all'attore Robin Williams aveva suscitato qualche aspettativa in più, peccato che si riveli una canzone innocua con il pilota automatico inserito e il solo Dickinson a metterci un po' del suo. Impressioni che si ripropongono a ruota con l'insipida "The Man of Sorrows", per lo meno caratterizzata da un guitarwork curiosamente inedito rispetto allo stile più classico del gruppo. A risollevare le sorti del disco irrompe infine "Empire of the Clouds", un'articolata suite malinconica e intensa (un tributo alla tragedia di Beauvais, quando nel 1930 il dirigibile inglese R101 precipitò causando la morte di quarantotto persone), scritta dal solo Dickinson e anche questa come nel caso di "If Eternity Should Fall" per larghi tratti accostabile alla sua produzione solista. Sarà solo un caso che siano pure i momenti migliori di tutto questo "The Book of Souls"?
Un album più che sufficiente... quasi discreto direi, lontano dai classici del passato ma meno banale di un "The Final Frontier" e non pretenzioso quanto era stato "A Matter of Life and Death" e che, continuando a limitare il paragone alle uscite più recenti, si colloca almeno un gradino sotto "Brave New World" e "Dance of Death".
Come il romanziere citato in apertura, anche i Maiden danno l'impressione aver trovato la formula
giusta e la applicano (
da tempo ormai... ) pure con i paraocchi.
PS: quest'Estate non ho letto nessun libro, quindi non mi aspetto alcun disco dei Maiden per il 2016.