Copertina 9

Info

Genere:Heavy Metal
Anno di uscita:2015
Durata:92 min.
Etichetta:Parlophone
Distribuzione:Warner Music Group

Tracklist

  1. IF ETERNITY SHOULD FAIL
  2. SPEED OF LIGHT
  3. THE GREAT UNKNOWN
  4. THE RED AND THE BLACK
  5. WHEN THE RIVER RUNS DEEP
  6. THE BOOK OF SOULS
  7. DEATH OR GLORY
  8. SHADOWS OF THE VALLEY
  9. TEARS OF A CLOWN
  10. THE MAN OF SORROWS
  11. EMPIRE OF THE CLOUDS

Line up

  • Bruce Dickinson: lead vocals, piano on "Empire of the Clouds"
  • Dave Murray: guitar
  • Adrian Smith: guitar
  • Janick Gers: guitar
  • Steve Harris: bass
  • Nicko McBrain: drums

Voto medio utenti

LETTERA AI MIEI CREATORI
Detesto i lunghi preamboli, dunque vado subito al sodo: ero molto, molto arrabbiato con voi.
Tanto arrabbiato che non ho dovuto compiere il minimo sforzo per stamparmi in faccia quell’espressione truce. Già: a muovere tendini e muscoli del mio grazioso viso da non-morto è stata la frustrazione di chi si era abituato troppo bene.

Dopo aver trascorso gli ultimi trent’anni in giro per le location più assurde -lo spazio profondo ed il party grottesco alla Eyes Wide Shut le mie favorite, anche se le relative copertine avevano il fascino di un tricheco con indosso un completo in lattice-, mi presento tutto baldanzoso, pronto per un nuovo viaggio… e voi mi fate accomodare in uno stanzino angusto, buio, senza nemmeno, che so, un neonato preveggente, un coltello o una pistola futuristica con cui gingillarmi.
Un autentico colpo basso, lasciatevelo dire.

E vogliamo parlare del trucco?
Quelle strisce bianche lungo il mio delicato visino si sono rivelate una vera tortura, anche se, per fortuna, le irritazioni cutanee mi sono precluse. Uno dei pochi vantaggi di esser zombie, presumo.
La precedente collaborazione con quel tale, Mark Wilkinson, si era rivelata godibile: mi avevano ricoperto di vimini e dato fuoco davanti a una folla urlante. Bello! Stavolta invece… Lasciamo perdere, altrimenti mi tornano gli istinti omicidi di quando ero giovane.

Però…
Sto invecchiando (e per chi è già defunto suona come una beffa, ve l’assicuro), e a voi non riesco a tenere il muso troppo a lungo.
Quindi mi tocca ammetterlo: la copertina, alla fin fine, non è malaccio. Tanto minimale quanto efficace, e trovo il livello di dettaglio della mia pelle sbalorditivo.

Non solo: vi siete fatti perdonare con un nuovo videogioco che mi vede protagonista (me lo dovevate: il precedente, Ed Hunter, faceva schifo anzichenò). Peccato solo sia difficile come i coin-up anni ’80, quelli che ti svuotavano le tasche di tutte le monetine in pochi minuti e, nel contempo, ti riempivano bocca e anima delle più turpi bestemmie dopo esser morto per la ventesima volta nello stesso punto.

Infine… beh, infine ho ascoltato The Book of Souls.
E di colpo vi ho perdonato completamente.

CONSIDERAZIONI SUL VOSTRO NUOVO ALBUM
Voi lo sapete meglio di chiunque altro (fatta eccezione per le mie vittime): ero un tipo piuttosto impulsivo. Capite bene che, per uno zombie assetato di sangue che si aggira per i sobborghi più malfamati di Londra, non è stato semplice metabolizzare la vostra svolta musicale prolisso-progressiva.
Ma il tempo passa, i non-morti evolvono (seppur a fatica) e i gusti cambiano. Ora, pensate un po’, quasi quasi preferisco gli Iron ultima versione!

Ve lo scrivo con la massima onestà intellettuale: con The Book of Souls siete riusciti a trasporre in note tutto, ma proprio tutto, quello che avrei desiderato da un vostro disco.
Personalmente lo vedo come una sorta di summa di tutte le vostre qualità, al netto dei difetti che affliggevano alcune vostre composizioni (chorus semplicistici, strutture ripetitive, arpeggi in eccesso… insomma, ci siamo capiti). È denso ma non pesante, complesso ma non astruso, ricco di idee ma non dispersivo, lunghissimo ma mai noioso…
Soprattutto: è un disco coraggioso, in cui avete riversato tutte le vostre idee e la vostra creatività, senza curarvi nemmeno per un secondo che potesse suonare poco Maiden. E ciononostante suona terribilmente, inequivocabilmente Maiden.

DIFETTUCCI
Beh, sono pur sempre un inguaribile brontolone, non avrete mica sperato che avessi solo lodi in serbo per voi?

1) Proprio volendo esser gentile, parlerò di auto-citazionismo e non di auto-plagio: suona più delicato, no?
Comunque sia a me non la fate, vi seguo da troppo tempo:
- l’attacco di Shadows of the Valley è sputato quello di Wasted Years, giusto un po’ più lento. Ah, già che ci sono: la linea vocale della strofa ricorda da vicino quella del chorus di Fallen Angel;
- in giro per l’album ci sono almeno un paio di citazioni (sempre per esser politicamente corretti) di The Legacy;
- una parte di porzione strumentale della title track rimanda non poco a Losfer Words.

2) When The River Runs Deep è caruccia, ma puzza di filler lontano un miglio ed ha un chorus strambo. Va ricordato, per amor di verità, che anche i vostri super-classici denunciavano qualche brano sottotono (Gangland, Quest for Fire e The Duellist sono lì da sentire…), quindi non si tratta di un problema insormontabile.

3) Speed of Light possiede un gran riff, trovo adorabile il campanaccio di Nicko, ma sul tessuto strumentale è stata cucita una linea vocale -mi riferisco in particolare al bridge- che c’entra quanto un unno ad un corso di punto croce.
Come singolo apripista ci può comunque stare, anche se io avrei optato per Death or Glory: schiacciasassi, trascinante, senza fronzoli e dotata di un bridge straordinario (ancor meglio del chorus, per dirla tutta). Io la valuterei seriamente per una riproposizione in sede live; voi fate quel che volete, tanto so che non ascoltate mai i miei consigli.

4) La produzione, tutto sommato, non mi dispiace: garantisce compattezza all’amalgama, donando nel contempo grande possanza alle chitarre. Ciò premesso, bisogna anche evidenziare che la nitidezza non si assesta su livelli altissimi.

Resto convinto che la scelta di avvalersi -e poi di fidelizzare- Kevin Shirley non si sia rivelata sbagliata: Caveman è un buon producer, e un tipo davvero simpatico. Tuttavia, possiede un difetto: non riesce ad opporsi al volere di Steve (difetto che lo accomuna ad ogni altro essere umano sulla faccia della Terra, a voler ben vedere).
Dance of Death, per dire, avrebbe avuto un gran bisogno di una correzione nel processo di mastering, e Kevin lo sapeva bene. Ma Steve voleva rimanesse tutto com’era, e così è stato -figurarsi-.
Risultato: suono bislacco della batteria di Nicko, volumi sballati, orchestrazioni e synth troppo invadenti (a proposito: complimenti per aver corretto il tiro! Anche in The Book of Souls ne avete fatto ampio uso, ma dimostrando maggior gusto e misura rispetto al passato).

E vogliam parlare di The Final Frontier?
Un mezzo disastro: suoni mosci, chitarre graffianti quanto un orsacchiotto di peluche, errori tecnici grossolani (la batteria pastrocchiata sull’intro della title track, l’attacco strumentale di Isle of Avalon e la linea vocale del ritornello di Mother of Mercy tagliate male…).
Qui, per fortuna, siamo ai livelli più che discreti di A Matter of Life and Death, giusto un gradino sotto Brave New World (quel disco sì che aveva una produzione coi fiocchi!).

Volete sapere cosa mi ha colpito maggiormente dei suoni di The Book of Souls?
Ecco qui: per la prima volta, il basso tiranneggia solo a tratti, e non si macchia di bullismo sugli altri strumenti dal primo all’ultimo minuto come nelle release precedenti.

D’altra parte, io vi conosco meglio delle mie tasche, tutti e sei. Quindi penso di conoscere, mio caro Steve, i motivi di questa scelta…

STEVE
Non illuderti: per me rimani il bassista più cocciuto, testone e caparbio di sempre. Però, a questo giro sarebbe scorretto non riconoscerti una importante maturazione: per la prima volta hai deciso di fidarti davvero degli altri, senza per forza filtrare, modificare, mettere il becco, steve-izzare ogni cosa (come diceva giustamente il grande Rod Smallwood nel documentario Flight 666).

Un po’ stai invecchiando anche tu, nonostante la tua capigliatura si ostini a voler dimostrare il contrario. Poi so che il 2014 è stato un brutto anno per te, pieno di lutti familiari e distrazioni esterne.
Sai che ti dico? Non tutti i mali vengono per nuocere. Almeno così hai potuto investire ogni stilla della tua creatività e perizia nell’immancabile pezzone epico a tua esclusiva firma: The Red and the Black.

Brano straordinario, non ci sono dubbi. Ci mette un attimo a trovare la strada (nei primi due minuti sembra indecisa, in bilico tra Blood on the World’s Hands, Mother Russia e The Rime of the Ancient Mariner), ma una volta partita diventa inarrestabile.
Un autentico tour de force, concepito per far sfracelli dal vivo (quei coretti galeotti…), con una coda strumentale capace di snocciolare una serie apparentemente infinita di melodie da pelle d'oca -e variazioni sul tema- sufficienti per un album intero, tutte incastrate alla perfezione l’una con l’altra. Un prodigio, ma da un geniaccio come te me lo sarei dovuto aspettare.

Quindi gioisci pure, caro ‘Arry: hai firmato uno dei gioielli più fulgidi dell’intero platter, e una delle tue composizioni solitarie più riuscite degli ultimi tempi (per quanto mi riguarda, ancor meglio di When the Wild Wind Blows e For the Greater Good of God).

Certo: The Book of Souls non è una “tua” creatura come lo fu, ad esempio, The X Factor (sottovalutatissimo, tra l’altro). Ma è una creatura degli Iron Maiden. Di tutti e sei, assieme, come mai prima d’ora.
E, se ti conosco come credo, sono convinto che la cosa non ti dispiaccia. Anzi.

Non solo: hai fatto bene a concentrarti sui testi. A questo giro ti sono riusciti davvero bene!
Tanto per esser franchi: nelle enciclopedie rock del futuro non contenderai a Bob Dylan lo scettro di miglior lyricist della storia, questo no. Nondimeno, stavolta sei finalmente riuscito a limitare l'utilizzo dei vocaboli "world" e "dream" (i tuoi tormentoni, riconoscilo), ed hai saputo convogliare la sensibilità amara e malinconica che ti accompagna dai tempi della separazione da Lorraine (nemmeno la scomparsa di tuo padre ha aiutato, lo so bene), in Tears of a Clown.

Quando ho capito che si trattava di una canzone dedicata all’attore Robin Williams, suicidatosi poche settimane prima che vi ritrovaste nei Guillaume Tell Studios di Parigi per incidere l’album, mi sono spaventato non poco -e non è facile spaventarmi-. Temevo un testo stucchevole e pacchiano, invece tutt’altro. Meno male: non ti avrei mai perdonato una commercialata stile Candle in the Wind.
Ah, fra l’altro gran canzone (Tears of a Clown, non Candle in The Wind), e splendido assolo di Adrian.
A proposito…

ADRIAN
Vuoi che ti dica la verità? Non mi andavi a genio.
Troppo meticoloso, puntiglioso, sempre alla ricerca dell’accordatura perfetta, del suono giusto, dell’effetto migliore… Un maledetto perfezionista petulante, ecco come ti avrei definito sino a qualche tempo fa!

Poi ho imparato ad apprezzare il tuo stile chitarristico unico, così raffinato, distinguibile tra mille e lontano dall'esibizionismo fine a se stesso di tecnica e velocità che affligge tanti tuoi colleghi. Ammiro anche la tua duttilità compositiva, che ormai ti permette di passare con agio dai classici, immediati brani rock oriented a quelli più complessi e sfaccettati.

Il tuo peso specifico in seno alla band, dal rientro del 1998, è lievitato di anno in anno, tanto che oggi godi di una importanza e di una considerazione che non riscontravo dai tempi di Somewhere in Time -l’album della tua definitiva consacrazione-.
Non sei ancora stato capace di convincere Steve ad arricchire gli arrangiamenti e a rendere i suoni più rotondi, questo no, ma chissà che al prossimo giro non ti riesca il miracolo…

D’altra parte, basta leggere i credits dei brani per capire quanto gli altri cinque contino su di te. E fanno bene, anche se se rimani fin troppo precisino per i miei gusti.
Tutto il contrario del mio prediletto paffutello…

DAVE
Sei il solito, adorabile pigrone.
Vuoi sapere cosa credo?
Che se solo ne avessi voglia, potresti essere un ottimo compositore, oltre che un fantastico chitarrista. Rimanendo sull’ultimo periodo: The Man Who Would Be King sfoggiava una porzione strumentale di prim’ordine -peccato solo per il mixing infelice-; The Reincarnation of Benjamin Breeg, dal canto suo, possedeva un riffing spettacolare e un feeling mistico impagabile.

Lo stesso feeling mistico che avvolge la The Man of Sorrows qui presente (ne approfitto per una chiosa: smettetela di riciclare i titoli delle canzoni! Questo l’aveva già utilizzato Bruce nel lontano ’97, e anche Speed of Light ha una sorellina omonima di proprietà del povero Blaze).
Traccia dai mille volti, cangiante e colma di fascino: un’autentica sorpresa, una gemma nascosta tra i colossi di lunga durata, ma non per questo meno preziosa.

Il fatto, caro Davey, è che di voglia ne hai ben poca, sbaglio?
A te basta comporre qualcosina giusto per non far brutta figura, presentarti in studio col tuo sorriso buono stampato sulla faccia, piazzare qualche assolo micidiale senza colpo ferire, divertirti in tour e, al termine di tutto, tornare a goderti la vita a casa tua, alle Hawaii.

Se non hai capito tutto della vita tu, non so davvero chi l’abbia mai fatto.

JANICK
Ah, caro Janick, l’eterno sottovalutato…
La gente è ancora lì, ad affannarsi a sostenere che hai rovinato i Maiden, che i tuoi assoli folli ed anarchici (proprio come te, non trovi?) non c’entrano nulla col sound della Vergine, che dal vivo fai solo casino… e non si accorgono che ormai la tua sei corde è un elemento fondamentale ed insostituibile nell’economia dei nuovi brani, né si premurano di constatare che molti dei pezzi migliori, da quindici anni a questa parte, portano la tua firma.

Il nuovo album non fa che confermare il trend positivo.
La title track, ancora una volta, è un tuo capolavoro personale: traboccante di carica evocativa, gravida di arcana solennità, percorsa da un minaccioso feeling di tragedia imminente e da un’atmosfera a metà tra Powerslave e Dance of Death (le canzoni).

Solo un consiglio, amico mio: l’accorgimento dell’arpeggio acustico posto ad inizio brano inizia a diventare logoro. The Legacy, The Talisman, The Book of Souls: tutti belli, ok, ma anche tutti troppo simili, accidenti a te!
Comunque, ai miei occhi, rimarrai sempre un grande.

NICKO
Premessa doverosa: per me con quel naso, quella faccia e quella risata, hai vinto a prescindere. Se poi, per sovrappiù, mi regali una prova come questa, si può addirittura parlare di trionfo.

Ho trovato onestamente monumentale la tua prestazione: più dinamico rispetto a The Final Frontier, ti sei dimostrato sempre a tuo agio nei momenti intricati e tecnicamente impegnativi (un esempio? Il tuo encomiabile lavoro su Empire of the Clouds), riuscendo al tempo stesso a recuperare il groove dimostrato in occasione di A Matter of Life and Death.
Alcuni drumfills, poi, sono un’autentica goduria per le orecchie, ma dal quel punto di vista non hai mai avuto niente da invidiare a nessuno.

Mi rendo conto che cominci ad avere una certa età, che il tuo modo, così dispendioso, di affrontare lo strumento esige sempre più il suo tributo in termini di stanchezza, che il tuo ristorante di costine a Miami va alla grande e che armeggiare con la mazza da golf ti piace quasi quanto impugnare le bacchette.
Ma fidati di me: finché tieni botta continua con queste ultime. Ne vale la pena.

BRUCE
Allora, iniziamo con una confessione: anche tu, come Adrian, mi eri antipatico!
Già il fatto che sapessi modulare in quel modo la tua voce, per il sottoscritto, capace solo emettere grugniti inarticolati, era fonte di inesauribile invidia. In secondo luogo, non mi andavano giù gli incessanti complimenti per il fatto di essere poliedrico, tuttofare, instancabile pilota, schermidore, presentatore radio, sceneggiatore bla bla bla.
E io? Ho visitato l’antico Egitto, preso a pugni il Diavolo in persona, viaggiato nel tempo… invece niente, tutti lì a incensare il factotum Dickinson.
Insopportabile.

I miei sentimenti sono cambiati di colpo quando ho appreso del tuo tumore: solo allora ho realizzato quanto fossi affezionato a te.
In fondo, avrei dovuto sapere sin dall’inizio che una banale malattia non poteva certo fermare l’inarrestabile Air Raid Siren, ma la verità è che ho accolto la notizia della tua completa guarigione con un senso di sollievo mai provato prima.

Anche per questo, ascoltarti cantare su The Book of Souls mi dona ancor più piacere.
Se proprio volessi far trionfare la sincerità, potrei timidamente rilevare che, qua e là, arranchi un po’: certi passaggi strozzati su The Great Unknown, giusto per citare un caso, dimostrano che l’onnipotenza vocale dei tempi di Piece of Mind non c’è più.
E vorrei ben vedere: son passati quasi trentacinque anni!
Va anche detto che oggi sei un cantante più completo di allora e più espressivo sui toni medio-bassi, senza contare il prodigioso apporto compositivo.
L’album, di fatto, si apre e si chiude con pezzi tuoi. E che pezzi.

La opener, If Eternity Should Fail, era stata concepita per il tuo futuro album solista. Fra l’altro si sente: musicalmente sembra provenire dal meraviglioso The Chemical Wedding, mentre la parte finale ricorda il breve interludio Toltec 7 Arrival (da Accident of Birth).
Come successo in occasione della vecchia Bring Your Daughter to the Slaughter, però, le bramose (nonché velocissime, come noto) dita di Steve ti hanno sfilato il brano da sotto il naso, inserendolo di forza in The Book of Souls.
Come dargli torto? È una bomba, con quel maestoso ritornello che ti si infila senza requie nella crapa e quel cambio di ritmo irresistibile al giro di boa.

Il tuo autentico capolavoro, però, resta la conclusiva Empire of the Clouds.
Ci hai lavorato un mese intero su quel pianoforte -anche se, non offenderti, sei più bravo a cantare-, l’hai perfezionata sempre più sino a renderla una sorta di immensa rock opera, che dura diciotto minuti ma non vorresti finisse mai tanto è commovente, poetica, drammatica.
Lo ammetto: fossi stato dotato degli appositi dotti, un paio di lacrimucce mi sarebbero scese.

CONSIDERAZIONI FINALI
Mi sono dilungato troppo, lo so, ma da quando sono stato dotato di corpo (ricorderete senz’altro che la mia prima incarnazione prevedeva solo la testa) ho deciso che l’avrei utilizzato il più possibile, dita incluse.
Oltre a ciò, non è che in questi giorni abbia granché da fare. La verità? Non vedo l’ora di partire con voi per il tour mondiale del 2016, credo ci sarà davvero da divertirsi. Salire sul palco è sempre un’emozione indescrivibile, anche dopo quarant’anni di concerti.

La domanda è: quanto durerà ancora?
Dipende da voi.
Io francamente non lo so, e nemmeno voglio pensarci. Quello che so, invece, è che se The Book of Souls dovesse rivelarsi l’ultimo album della Vergine, beh, sarebbe la conclusione più gloriosa possibile.

Anche se sto uscendo dal personaggio feroce e maligno che dovrei incarnare, ci tengo a dirvi due cose.
Sono orgoglioso di voi, e vi voglio bene.

Per sempre vostro
Ed

P.S.: vi prego di non far leggere a nessuno questa lettera, è troppo sdolcinata.
Recensione a cura di Marco Cafo Caforio
The book of souls

xxx

Ultimi commenti dei lettori

Inserito il 05 feb 2016 alle 22:27

Disco noioso, bruttino, senza idee vincenti, il solito compitino che da Brave New World in poi i Maiden applicano stancamente. Io, che ho iniziato a seguire i Maiden da Killers quando uscì (eh si sono vecchio gente), ho smesso dopo Seventh Son, ultimo disco bello del gruppo. Dopo il nulla intervallato da qualche bel pezzo qui e la. Book è tra i dischi meno brutti di quelli brutti dei Maiden.

Inserito il 23 ott 2015 alle 10:12

Quoto al 100% il commento di lordz65 e mi complimento anch'io con Marco per questa bellissima recensione, l'idea di impersonarsi in Eddie per recensire il disco è nello stesso tempo geniale e commovente! Non c'è che dire, come scrittore sei veramente talentuoso. Sul giudizio complessivo dato al disco (mi riferisco al voto) non sarà 9 ma un 8 pieno è il minimo che si può attribuire ad un'opera così lunga e piena di idee. Cosa volete di più da gente che ha abbondantemente superato i 50 anni e che ha scritto una parte importante della storia di questa musica. Altro che Gene Simmons che afferma che il rock è morto. L'unico morto è lui e la sua musica! Aggiungo solo un'ultima nota. Se "The Red and the Black" non avesse all'inizio quei coretti quasi ridicoli, sarebbe un pezzo da 10. Io avrei semplificato la parte iniziale eseguendo le note dei cori con le note delle chitarre da ripetere al massimo per due volte e lasciato fare i cori, ad libitum, ai fans nelle esibizioni live.

Inserito il 10 set 2015 alle 12:00

Ottimo disco. Nel complesso forse il migliore dell'era post-reunion. A me questi Iron Maiden piacciono come quelli di 30 anni fa.

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