Premessa: i Queensryche sono, in assoluto, uno dei miei gruppi preferiti.
Ho ascoltato “
Operation: mindcrime” un numero incredibile di volte, anche più di tanti altri “classici” del
rock che però per motivi anagrafici non ho potuto “vivere” direttamente sulla pelle, come invece è successo con quello che considero un autentico capolavoro della musica, straordinariamente coinvolgente e ingegnoso, da accostare senza timori reverenziali a monumenti del calibro di “The wall” e “Quadrophenia”, proprio come fece Ben Liemer dalle prestigiose pagine di
Circus.
Antefatto: i Queensryche sono morti, andati, finiti. Hanno cessato di “esistere” come
band probabilmente nel momento stesso in cui hanno smesso d’imporre il “loro” suono, subendo la pressione delle regole del mercato (con “Here in the now frontier”, come argutamente rilevato dall’esimio collega Fabio Zampolini, su
Psycho!, se non erro …). Da lì in avanti, solo qualche scampolo di gradevole autocelebrazione e taluni spunti anche parecchio interessanti, ma di sicuro non la “vera” essenza di una formazione fino ad allora realmente rivoluzionaria.
L’eredità dei Queensryche è tuttora vacante.
Di certo non è in possesso di quella sorta di (molto competente, per ovvie ragioni …)
tribute-band che da qualche tempo porta a spasso impunemente un nome così autorevole e non è nemmeno nelle mani di un cantante che altrettanto spudoratamente decide di chiamare il suo nuovo progetto proprio nella stessa maniera di quel disco che molti sceglierebbero come l’unico da portarsi “sull’isola deserta”.
E, badate bene, in quest’affermazione non pesano le ripicche o i deliri egocentrici che hanno portato alla grottesca situazione, con i miei antichi “eroi” protagonisti di una
telenovela davvero indecorosa; la valutazione è (almeno nelle intenzioni …)
esclusivamente artistica.
Analisi: arrivati alla disamina di “The key” (il primo capitolo di una trilogia …
omioddio …), tenendo conto del lungo prologo che l’ha preceduta, diciamo subito che il “riscatto” (non previsto, eppure in fondo al cuore sempre sperato) non è arrivato, anche se forse l’albo è nell'insieme appena “meno peggio” di quanto mi aspettavo.
Geoff Tate porta avanti con una certa “coerenza” la sua idea di musica
rock e, pur sfoggiando una pettinatura abbastanza imbarazzante, svolge il suo ruolo di
vocalist (ex)traordinaire con sufficiente fierezza.
Certo, l’estensione non è più quella di un tempo, e tuttavia il nostro continua a meravigliare per una carica interpretativa (dalle sfumature sempre più Bowie-
ane) assolutamente non comune e per un carisma che tanti suoi emuli con polmoni più flessibili e capienti si possono solo sognare.
Il grigiore di “Kings & thieves” e i pasticci di “Dedicated to chaos” e “Frequency unknown” purtroppo non sono stati debellati e soprattutto nella seconda parte il programma è dominato dai vaneggiamenti “alternativi” di un’artista che evidentemente non ha ancora risolto il suo stato “confusionale”.
Il problema non è stilistico, anzi, avrei accolto con entusiasmo una forma di “sperimentazione” consistente e appassionante, uno “scatto” che riaffermasse prepotentemente quella valorosa identità espressiva un tempo capace di rinnovarsi costantemente senza perdere una stilla di classe e di forza comunicativa.
Ascoltare lo sconclusionato
crossover tentato in “The stranger” (veramente pessima!) e “Hearing voice”, o le impalpabili armonie elegiache di "Kicking in the door” si rivela invece un’indicibile “sofferenza” e non va tanto meglio neanche nelle fluttuazioni liquide di “On queue” e nelle pulsazioni enfatiche di “The fall”, perlomeno in grado di accendere un minimo i sensi e l’attenzione.
Alla fine i momenti maggiormente appaganti risultano quelli più legati al nobile passato del
singer americano (
qualcosa tra “Promised land” e lo stesso “Operation: mindcrime”, del quale il
platter in qualche modo vorrebbe essere una sorta di “continuazione”, elaborandone le tematiche socio-politico-economiche e mutuandone la struttura enigmatica e “cinematografica” …) evocato tramite il crescendo ombroso di “Choices”, il discreto magnetismo di “Burn” e del primo singolo “Re-inventing the future” e ancora attraverso l’atmosfera sospesa di “Ready to fly” o la cupa intensità di “Life or death?”, verosimilmente il tentativo più riuscito di fondere la storia di Tate con la sua visione “progressista” (qui caratterizzata da approccio vagamente Reznor-
esco) della materia.
Alla fine, dopo aver doverosamente rilevato la presenza (abbastanza “passiva”, invero …) di molti illustri contributori (da Dave Ellefson a John Moyer, passando per Simon Wright, Brian Tichy e per il fedele Kelly Gray, tra gli altri) all’opera, la sensazione che rimane, e che “ai tempi belli” non avrei mai pensato potesse finire per essere associata a un mito autentico come Geoff Tate, è una sola:
il rimpianto.
Come ho detto alcune righe fa, l’incredibile patrimonio artistico dei VERI Queensryche non ha ancora trovato un beneficiario all'altezza, e la speranza che tale figura venga al più presto reperita continua a essere il sogno di un inguaribile
musicofilo.