Secondo disco in due anni per
Tim Bowness, personaggio noto (ma poi nemmeno così tanto) per le collaborazioni con
Steven Wilson e altre cosucce interessanti sparse qua e là.
Ho veramente poco da aggiungere a quanto detto dal collega riguardo la precedente release (
qui la recensione): anche questo è un album intimo, difficile da digerire ai primi ascolti, carico di emozione e riflessioni musicali.
Però io non mi voglio fermare qui, un voto voglio arrivare a darlo. E allora si prende un 6 di cortesia, per almeno due motivi.
Partiamo dal songwriting. Se decidi di lanciarti in questo genere, fatto così (cioè lento, pieno di sensazioni, scevro di virtuosismi e lasciato alla libera interpretazione dell’ascoltatore), non devi essere bravo, devi essere Dio. Non Ronnie James, ma comunque un’entità largamente superiore a tutti quanti. Purtroppo per lui (ma anche per noi) Tim Bowness non è ancora una divinità e, pur mostrandoci qualità indiscutibili, non arriva a convincere al 100%.
Secondo motivo è la resa dei brani. Ci sono tante cose lente, anche molto lente, che fin dalla prima nota di prendono e non ti lasciano andare più. Ci sono poi cose lente, anche molto lente, a cui daresti fuoco dal nervoso. Il disco di Bowness si colloca a metà: in alcuni tratti sembra decollare, ma subito dopo ritorna a veleggiare sulla stanca linea dell’indifferenza.
Sarà anche il mood non particolarmente malinconico di questi giorni, ma a me, in fondo, non è piaciuto. Voi state bene attenti: ascolto obbligato prima dell’eventuale acquisto.
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