Se me l’aveste chiesto in tarda primavera, non avrei accusato il minimo tentennamento nel sentenziare che il 2015 sarebbe passato ai posteri come l’anno dell’
avantgarde.
Ora che i colori autunnali incanutiscono quella che, comunque vada a finire da qui al 31 dicembre, merita di venir catalogata come una splendida annata per la nostra musica favorita, prendo atto dell’errore commesso nella previsione: il padrone del 2015 è il
doom.
Tanti, tantissimi i lavori in grado di galvanizzare gli amanti di queste sonorità, sia tra i grandi nomi (
Ahab,
Paradise Lost,
My Dying Bride,
Pentagram,
High On Fire,
Skepticism…) sia tra le realtà meno note (
The Vintage Caravan,
Sorcerer,
Aphonic Threnody,
Minsk…), senza contare la febbrile attesa per il nuovo
Avatarium.
Ecco, già che ci siete aggiungete pure alla lista della spesa
Grief’s Infernal Flower, nuova fatica dei
Windhand.
Non parliamo certo di un nome consolidato (la fondazione risale al 2008) né graziato da eccessiva notorietà, eppure i più attenti avranno già apposto una nota sul proprio taccuino: i due full precedenti -
Windhand e
Soma, rispettivamente 2012 e 2013-, infatti, mettevano in mostra doti ben superiori alla media e notevole potenziale.
Potenziale che, in occasione del terzo album, trova una maturazione quasi completa.
Se da un lato non credo che inserire il quintetto statunitense nel -sempre più gremito- filone del
doom con female vocals possa dar adito a contestazioni di sorta, dall’altro ritengo sia doveroso riconoscer loro una varietà stilistica preclusa alla stragrande maggioranza dei colleghi.
Basta imbastire una rapida conta: nei nove brani che compongono il platter si rinvengono retaggi
drone (l’opener
Two Urns), digressioni psichedeliche dal forte sapore vintage (
Crypt Key), soluzioni ad alto tasso melodico (
Tanngrisnir), inevitabili tentazioni
occult (
Hyperion) e rinfrescanti parentesi acustiche (
Sparrow, la conclusiva
Aition).
Tutto ciò senza considerare il doppio tour de force del disco,
Hesperus e
Kingfisher. In due dissiperanno quasi mezz’ora della vostra vita residua, ma mentre il pachidermico crescendo della prima potrebbe condurre i meno pazienti allo skip, la liquida vena lisergica di cui la seconda è pervasa dovrebbe contribuire a mantenere alta l’attenzione.
La produzione, dal canto suo, promuove con forza un’ulteriore sfaccettatura del sound dei
Windhand: quella più squisitamente
stoner. Grassi, saturi, colmi di fuzz e riverbero, i suoni varati da
Jack Endino -mi astengo dall’indicarne il résumé- riescono nell’impresa di valorizzare tanto la sezione ritmica quanto l’imponente muraglia sonora eretta dalla coppia di asce
Asechiah Bogdan/
Garrett Morris, senza per questo sotterrare nel mix (come successo, invece, nel già citato
Soma) le vocals di
Dorthia Cottrell.
Meno male: la performance canora si rivela ancora una volta conturbante grazie al timbro davvero particolare, anche se a mio avviso si indugia troppo sulle solite linee vocali a cavallo tra l’ipnotico e l’apatico -a proposito di drone-.
Il calibro compositivo è davvero notevole, il livello di coinvolgimento pure, la resa del sound altrettanto… al tempo stesso, scrivevamo in precedenza che la maturazione è “quasi” completa, e quel “quasi” è proprio ciò che si frappone fra
Grief’s Infernal Flower e la qualifica di
top album.
A mio avviso manca davvero poco: un miglior bilanciamento nell’assemblare la tracklist, la creazione di una identità musicale ancor più definita e riconoscibile, e soprattutto l’abbandono definitivo delle note, tediose reiterazioni (banalmente, dieci-quindici minuti in meno di durata, al netto di alcuni passaggi superflui, avrebbero reso il tutto più fruibile).
Tanto basta.
Se i Nostri saranno in grado di limare queste ultime asperità, il percorso artistico intrapreso potrà dirsi completato, con mutua soddisfazione di band e fans.
Già oggi, tuttavia, reputo poco saggio volgere lo sguardo altrove.
Date ai
Windhand una chance: in fondo, il 2015 è anche il loro anno, no?