Aderire a culti satanici di matrice ritualistica nella modernissima e tentacolare
Grande Mela potrà sembrare bislacco (anche se
Roman Polansky, col suo immortale film
Rosemary’s Baby, testimonia il contrario); parimenti, alcuni troveranno demodé un live show in piena
Manhattan colmo di cerimoniali, invocazioni, liturgie e preghiere dedicate al buon
Belzebù. D’altra parte, parliamo di un contesto sociale talmente variopinto e cosmopolita da garantire spazio per tutti, no?
Quindi eccomi, dopo una prima -poco lusinghiera- recensione risalente al 2013, a trattare di nuovo della band newyorkese in occasione di "
Further Down the Tunnel".
Discutiamo di un EP composto da cinque tracce, cui è demandato l’arduo compito di attestare una maturazione rispetto ai tentennanti esordi. Esordi a mio avviso troppo confusionari in termini di direzione artistica, tra abbozzi di musica rituale, black metal primigenio e inflessioni doomeggianti.
Un coagulo sonoro, questo, con potenziali spunti d’interesse, eppure sino ad oggi poco appetibile a causa dell’acerbezza (che vocabolo orrendo!) del songwriting.
Sino ad oggi… oggi compreso.
Spiace, ma nonostante la buona volontà non riesco proprio a digerire la proposta dei
Teloch Vovin: la ritengo ancora troppo involuta a livello strutturale e poco coinvolgente sotto il profilo emotivo.
Passino pure il riffing basilare, la perizia esecutiva rivedibile e la produzione sozza (ad ogni modo, tanto perché lo sappiate, ci si assesta su livelli di un demo di metà anni ’90), ma il pressapochismo compositivo e la mancanza di un filo conduttore che leghi i brani costituiscono difetti troppo macroscopici per poter ambire a una pur risicata sufficienza.
Così, dopo un’intro ripetitiva, tirata troppo per le lunghe e meno minacciosa di quanto avrebbe voluto, tocca alla doppietta "
Thaumiel" e "
Vena Cava" dimostrare i grossi limiti della band, alle prese con un raw black/death metal caotico e per nulla ispirato.
Finora si salva solo la prova dietro al microfono del singer
Pestis, dotato di uno screaming acido e abbastanza ficcante.
Con la successiva "
Breathe Deep… Asphyxiation of the Human", poi, scendiamo nell’abisso, ma non quello infernale che intendevano i
Teloch Vovin: insulsa strumentale semi-ambient, con una traccia di pianoforte scevra da qualsivoglia spunto d’interesse ripetuta per oltre cinque minuti.
Se poi quella sequenza di note, nelle giuste condizioni, evoca il Maligno, trucida gli angeli e rovescia l’ordine ecclesiale non lo so, ma ascoltata così, nel mio studiolo, sortisce l’unico effetto di suscitare sonnolenza.
Si chiude con "
Adoration/Vexation", con ogni probabilità episodio più positivo del lotto, in virtù di trame chitarristiche di scuola norvegese dal vago retrogusto epicheggiante. Basta non vi aspettiate la nuova "
Mother North", senza contare che cala sulla lunga distanza e che i coretti ad inizio brano c’entrano quanto
La Liceale nella Classe dei Ripetenti, con
Lino Banfi e
Gloria Guida, in una colta rassegna di film d’essai.
In tutta franchezza, non vedo come "
Further Down the Tunnel" possa trovar spazio o legittimazione nel mercato discografico odierno. Invito comunque i Nostri a perseverare nei loro concerti/messe nere in giro per
New York, nella lodevole (seppur vana, trattandosi di personaggio di fantasia) opera di glorificazione di Nostro Signore Lucifero e nella ricerca di una formula musicale finalmente efficace.
Nel frattempo: bocciati.
Mi auguro solo che, a fronte di questa ennesima stroncatura, non mi venga lanciata una maledizione come all’attore rivale di
Guy Woodhouse nel già citato
Rosemary’s Baby: mi sono operato agli occhi solo pochi anni fa…