Mi sento come Amleto, e mai avrei pensato di avere qualsivoglia dubbio sui Meshuggah. Pensate che questa è la decima volta che riscrivo questa recensione. Le prime cinque le ho scritte prima dell’intervista col chitarrista Marten Hagstrom, le altre cinque dopo. Una sola cosa non è mai cambiata, il voto ed il giudizio complessivo. Ma andiamo con ordine.
L’ascolto del nuovo “Catch Thirtythree” mi ha procurato non pochi dissidi interni, tra lo sfegatato fan che c’è in me e lo spirito critico che non vuole mai tacere. Cosa c’è che non va? Formalmente nulla, i Meshuggah sono la solita macchina da guerra, col loro sound alieno, obliquo, disturbante, claustrofobico, che colpisce diritto al cervello, riducendolo a pochi brandelli insaguinati. La loro prova tecnica è ancora una volta sopra le righe, complessa, sembra provenire da un’altra dimensione. Qual è il problema allora?
Il problema è che i Meshuggah hanno imparato a vivacchiare di quanto già fatto, avendo acquisito una formula che, per quanto ancora unica ed inimitabile, ormai segna la corda. Dopo tre secondi dall’inizio dell’opener “Autonomy Lost” hai già capito tutto, hai già capito dove andrà a parare, ovvero che ti annienterà, ma non c’è lo sconvolgimento dell’imprevedibilità, di quello che non ti aspetti. Non c’è la voglia della band di osare ancora di più, di spingersi ancora più in la nella ricerca sonora. E ciò, per una band del talento e delle qualità dei Meshuggah, è un vero e proprio peccato mortale. Questo “Catch Thirtythree” è routine, è un’unica traccia divisa in tredici che non va più in la da quando già fatto sul mini “I”. È la riproposizione pedissequa di un qualcosa di unico, che pur tuttavia nella tautologica ripetizione perde quella unicità, o meglio la ibrida con il concetto di ripetitività, che per i detrattori si coniuga “mancanza di creatività”. La ciclica ripetizione di questa unicità è alla base di questo disco, il quale spaccherà ancora di più la critica. Questo perché chi li ama ne canterà le lodi a tutta forza, chi non li ama vedrà nei 47 minuti del disco un lungo tunnel di noia e disturbi del basso ventre.
E non serve a niente che Marten mi abbia confessato che il loro intento era proprio quello di scrivere un disco ripetitivo, che suonasse come una sinfonia, come qualcosa di non ordinario ed ipnotico.
Inoltre la traccia unica in realtà è una chimera, come su “I”, in quanto in realtà sono tre tracce, di cui la prima dura circa dodici minuti, la seconda si prende buoni quattro minuti per iniziare, con un lungo arpeggio, e ne dura circa dieci, poi si riparte con l’arpeggio per altri cinque minuti, e così si arriva alla terza che dura circa undici minuti, prima del lungo arpeggio finale per altri sei minuti. Quindi su 47 minuti abbiamo circa 15 minuti di arpeggio e 32 di musica vera e propria, di cui solo gli ultimi 10 hanno qualcosa di veramente degno di nota per intensità, brutalità e alienazione.
La mia posizione a riguardo è che sto in mezzo, nel senso che questo disco mi accompagnerà per molto, mi darà il coma più e più volte, lo consumerò fino alla nausea, ma lo spirito critico non può sottacere e non evidenziare che i Meshuggah questa volta hanno fatto il loro compitino, perfetto quanto si vuole, ma pur sempre un compitino piccolo piccolo. Il voto finale è solo la sommatoria algebrica di una serie di valori buttati sulla bilancia, la quale ahimé, stavolta, pende leggermente dal versante negativo. E per una band abituata a stare agli estremi di quella bilancia, forse è proprio la cosa peggiore.
L’emblema massimo di questo compitino è poi rappresentato dalla batteria interamente suonata da una drum machine. Badate bene che è qualcosa che non riuscirete a distinguere, io nemmeno c’ero riuscito e quando Marten me l’ha detto, quando Marten mi ha detto che su questo disco Tomas Haake non aveva suonato nemmeno una nota, mi stava cascando la mandibola a terra. Praticamente Tomas ha registrato qualche parte di batteria, la quale è stata campionata ed è stata riproposta nel disco inserendola a mò di puzzle e allungando il brodo. Ma dico come si fa a non usare un batterista simile? Marten dice che quel che conta è il risultato, che comunque sono state inserite parti che Tomas può suonare dal vivo tranquillamente. Ok, ma chi ci dice che potrà farlo per 47 minuti filati? Infatti Marten mi ha confermato che dal vivo non suoneranno interamente questo disco. Bella fregatura.
Questo è un disco che una band come i Meshuggah avrà composto, al massimo, in una decina di giorni lavorativi. Forse questo il punto più basso della discografia della band di Umea.
Si badi bene però che i Meshuggah tutto sono fuorché mediocri, mediocre è solo l’approccio, con aria di sufficienza, a questo disco, con la convinzione di poter ripetere all’infinito ciò cui ci hanno già abituato in gran copia. Forse ci hanno abituato troppo bene, e ora non ci basta più, non ci bastano le poche parti veramente brutali e degne di nota, che si accumulano soprattutto in un picco centrale del disco e nell’ultima traccia, e soprattutto, vorremmo assaggiare, prima di morire, ancora una volta la disarticolata follia, l’acida claustrofobia, la monolitica angoscia del loro vero e indiscusso apice creativo, “Chaosphere”. Grossissima delusione.
Ps. Non avete idea di quanto mi faccia male vedere il voto qui sotto, ma forse la ragione di questo flop risiede nel fatto che la band ha dovuto pubblicare questo disco per la Nuclear Blast, al fine di sciogliere il contratto con loro. Lo speriamo fortemente, anche se Marten a riguardo s’è incazzato molto.