Questo EP di
Steven Wilson esce dopo un 2015 molto intenso per il fondatore dei Porcupine Tree. Un album (
“Hand. Cannot. Erase.”) acclamato da pubblico e critica, una serie di show sold-out un po’ ovunque (tra cui un recentissimo evento speciale alla Royal Albert Hall di Londra) e dei nuovi compagni di viaggio (
Craig Blundell alla batteria e
Dave Kilminster alla chitarra, che di fatto si aggiungono/alternano agli “storici”
Marco Minnemann e
Guthrie Govan) hanno inevitabilmente fatto crescere esponenzialmente le aspettative nei confronti dell’artista britannico. L’origine del titolo
“4 ½” è da ricercare nella sua natura di disco “intermedio” tra
“Hand…” e il prossimo full-length, e contiene registrazioni escluse dagli ultimi due album e un nuovo arrangiamento di
“Don’t Hate Me”, risalente al 1998. “Un disco di scarti” starete pensando voi e in parte è vero: non saremo di fronte a delle “gemme inestimabili” di progressive rock ma a dei momenti ben riusciti di “Wilson-sound” sicuramente sì.
“My Book Of Regrets” proviene indiscutibilmente dalle session di
“Hand…” e, tra momenti soffusi e assoli ispirati, ha la sua unica (enorme) pecca nell’autocitazione chitarristica che rimanda a
“Time Flies” (da
“The Incident”).
“Year Of The Plague” è un riuscito brano strumentale che prelude alla traccia, che definirei pop,
“Happiness III” con il suo ritornello davvero azzeccato (peccato per il finale in dissolvenza, quanto mi infastidiscono i finali in dissolvenza…).
“Sunday Rain Sets In” è più vicina ai territori crimsonici del periodo
“Grace For Drowning” (e alle mie orecchie si sente la mancanza di una linea vocale) così come
“Vermillioncore” sembra ispirarsi alle sonorità più heavy di
“Deadwing” o
“Fear Of A Blank Planet”. Chiude il cerchio il rifacimento della sopraccitata
“Don’t Hate Me”, registrata dal vivo e “risistemata” in studio (un esperimento già fatto dai King Crimson ai tempi di
“Starless And Bible Black”) dove il nostro duetta con
Ninet Tayeb in una cornice sonora in cui
Theo Travis e
Adam Holzman danno il meglio di sé in fase solistica. Un lavoro discreto da tutti i punti di vista, né di più né di meno.
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