Il
rock n’ roll è davvero una “brutta bestia”. Quando un gruppo ha successo, si comincia a guardarlo con “sospetto”, quasi l’affermazione su vasta scala sia una specie di “marchio d’infamia” invece che una nota di merito. E questo, spesso, indipendentemente dal valore effettivo delle
performance della
band stessa.
Prendete questi
Wolfmother, autori di un debutto che non esito a definire un
must-have per tutti gli estimatori di Black Sabbath e Led Zeppelin (e Yes …), e che, com’è giusto che sia, ha anche regalato agli australiani un sacrosanto posto al sole nel panorama musicale internazionale, anche oltre i confini di “genere”.
Da quel momento, tutti pronti alla critica pignola e animosa, a misurare col bilancino il peso delle loro evidenti influenze (in una scena in piena fregola “vintage” …) o a stigmatizzare le concessioni al
mainstream, le quali, laddove presenti, non sono mai apparse moleste o indice di un fastidioso “addomesticamento”.
Dall’altra parte, accantonando lo snobismo di troppi presunti
musicofili, è anche vero che un esordio di tale livello genera enormi aspettative, non del tutto mantenute dal percorso musicale di un artista in ogni caso di notevole talento e cultura, nonché uno degli artefici principali del risveglio del “grande vecchio” nel terzo millennio.
Eh, già perché ormai i
Wolfmother sono quasi esclusivamente una creatura di
Andrew Stockdale, a tal punto che questo “
Victorious” può essere in qualche modo considerato una sorta di propaggine della sua attività da solista (che, ricordiamo, nel 2013 ha prodotto l’ottimo “
Keep moving”), a conferma, tra l’altro, di una
leadership dalle origini antiche.
Con il contributo suppletivo di
Ian Peres alle tastiere e quello di un paio di
special-guest dietro ai tamburi (
Josh Freese e
Joey Waronker), nell’albo troverete il modo in cui
Stockdale intende l’
hard-rock in un’era dominata dalla superficialità e dalla frenesia: una raccolta di canzoni dagli effetti immediati, capaci però, in parecchi casi, di crescere con gli ascolti.
Molti, ne sono certo, storceranno il naso di fronte a "
Baroness” e “
Pretty Peggy” (contraddistinte da
ruffianerie alla
Jack White, declinate tra
blues elettrico e
alternative folk) o a “
Best of a bad situation” (un
freeway rock, in effetti un po’ fuori luogo), per quanto mi riguarda brani assolutamente dignitosi, ma a costoro chiedo di trovarmi qualcuno grado di mescolare così bene
Zeps e
Sabs come accade in “
The love that you give”, “
Gypsy caravan” e nella liquida “
Happy face”, oppure che sappia ostentare una “freschezza” analoga a quella concessa a “
Victorious” e alla frizzante “
City lights”, arguta fusione tra
pop,
hard,
prog, scorie
AOR e
psichedelia.
Agli ammiratori delle ambientazioni epiche e suggestive, infine, suggerisco di non perdere “
Eye of the beholder”, una “botta” finale piuttosto impressionante, degna delle migliori prove di “questi”
retro-rockers tanto abili quanto scaltri.
I
Wolfmother degli esordi continuano a rappresentare l’istantanea di un momento sonico indimenticabile e sono convinto che l’
underground attuale, nel medesimo settore di competenza, offra materiale anche superiore (sebbene magari realizzato con mezzi “diversi” … non tutti si possono permettere la produzione di un
Brendan O’Brien!) a questa loro ultima fatica … ciò non toglie che “
Victorious” sia “obiettivamente” un buon disco, alimentato da un “fuoco” dell’ispirazione leggermente affievolito e tuttavia di sicuro non estinto.