“I’m talking about the death of rock’n’roll”. Con questa frase lapidaria si apre l’album di Alec Empire, musicista, produttore, ribelle, techno-punk, soprattutto mente dei pluriblasonati Atari Teenage Riot, un personaggio tentacolare la cui vita e carriera artistica meriterebbe una trattazione a sè stante.
Il rock è morto? Il rock è vivo? Ci si pone tale domanda almeno da tre decadi e ciascuno ha la propria risposta, magari anche una personale ricetta per guarirlo. Sembra proprio il caso del chitarrista berlinese, per il quale il rock è perlomeno moribondo, zeppo di antiquati clichè e di gruppi capaci solo a riciclare stancamente idee polverose.
Stando al dott.Empire il suo intervento non era soltanto necessario, ma dovrebbe rappresentare una medicina salvifica per questo grave malato, sotto forma di un lavoro che, come ci ha abituato da sempre, contamina una struttura di base heavy rock con un tornado devastante di elettronica.
Due i protagonisti del disco: il chitarrismo urticante, astioso, allucinato, di Alec ed i contributi elettro-rumoristici di Nic Endo, giovane nippo-americana specializzata in noise già collaboratrice degli A.T.R.
Volumi assordanti, battiti violenti, riffs follemente distorti con spirito anarcoide, urla rabbiose e vibrazioni negative, tutto per dare vita ad un’atmosfera da incubo tecnologico-industriale che dovrebbe fungere da scossa elettrica per riattivare la circolazione sanguigna del rock.
E’ lampante che Empire abbia costruito un disco feroce, pieno dell’energia alienante e schizoide dei tempi moderni, della cattiveria insensata delle tribù della suburbia metropolitana, un lavoro crudo e massicciamente uniforme che con il suo noise sinistro non concede respiro dall’inizio alla fine.
Troppo uniforme però, visto che se i primi furibondi assalti techno-hardcore di “Kiss of death”, “Night of violence” e della cadenzata, torbida, “Overdose” hanno l’effetto frastornante di una sberla improvvisa, proseguendo subentra l’assuefamento al battito frenetico ed allo stridente sbraitare con l’inevitabile sensazione di saturazione, seguita da quella di monotonia, che rende pesante giungere al termine di “Futurist”.
Si percepisce la forte ambizione di creare l’opera trasversale per eccellenza, di collegare antico e moderno, passato e futuro, ma lo schema è sempre uguale: prendere un riff classico, plasmarlo, filtrarlo attraverso la tecnologia ed esasperarlo nella rabbia, nell’isteria, nella nevrosi. Il limite ed il rischio più evidente è di tenere distanti i fans del metallo ortodosso senza attirare il popolo dei modernisti amanti delle contaminazioni, che potrebbero sentire il disco troppo heavy ed estremo per loro.
Dunque la panacea di Alec Empire si è rivelata poco efficace, se il rock era davvero in fin di vita non mi pare che “Futurist” sia riuscito a rimetterlo in piedi. Sebbene l’artista tedesco non abbia tutti i torti a definire quantomeno stagnante l’attuale scena, anche le sue spesse infiltrazioni elettroniche non portano quella ventata di freschezza ed originalità che ci si sarebbe aspettati.
Album discreto, ma non così rivoluzionario come l’autore pretendeva.
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