E’ facile appiccicare un’etichetta a una band ed è altrettanto facile levargliela. Quello che è difficile, per la band in questione, è sopravvivere a quell’etichetta e fare in modo che, con il passare del tempo e degli album, la colla che la unisce alla propria fronte sia sempre più forte.
Con questo nuovo “
Affinity”, gli
Haken hanno preso cemento a presa rapida a badilate e se lo sono spalmato in fronte, esattamente sopra all’etichetta di “Nuovo fenomeno mondiale del prog”. Gli Haken sono, allo stato attuale delle cose, uno dei punti di riferimento della scena prog, band da prendere ad esempio per chiunque voglia affacciarsi in questo mondo magico e sincopato.
Perché? Semplicemente perché sono tecnicamente ineccepibili, maturi dal punto di vista del songwriting e inverosimilmente innovativi. E studiosi, soprattutto studiosi.
Ross Jennings e soci non si siedono sul successo maturato in passato ma approfondiscono, grazie anche a qualche episodio indubbiamente fortunato (il tour coi Leprous, ad esempio), introducendo nel loro sound elementi nuovi e solo apparentemente idiosincratici e anacronistici.
Si può far convivere il prog-rock anni’80 con la dubstep? L’elettro-pop con il djent? Si può. Col talento si può tutto.
E’ così che nasce “Affinity”, con una montagna di talento. A partire dalla splendida e camaleontica voce di Ross Jennings, passando per il groove profuso dalla coppia
Hearne-Green (quest’ultimo alla prima, ottima prova al basso dopo la partenza del fondatore Thomas MacLean), per arrivare alle chitarre di
Henshall e
Griffiths, senza dimenticare l’uso certosino delle tastiere da parte di
Diego Tejeda, ben coadiuvato dal già citato Henshall.
Ma il bello degli Haken è che questo talento non viene sciorinato come una poesia imparata a memoria, piuttosto saggiamente utilizzato per creare soluzioni differenti da canzone a canzone.
Si parte con l'intro “
Affinity.exe”, uscita direttamente dai viaggi spaziali degli Ayreon, che introduce l’iniziale “
Initiate”, mi si perdoni il gioco di parole. Traccia dalla strofa intrigante, melliflua che mantiene le atmosfere spaziali dell’intro e con un grandioso finale a livello di linee vocali, ipnotico al punto giusto. “
1985” è poi figlia del nome che porta, trasportandoci direttamente indietro nel tempo di una trentina d’anni o più, grazie a un prog-rock tipicamente inglese e infarcito di soluzioni al limite dell’AOR e da una prestazione a livello tastieristico da brividi. Catchy e ruffiana al punto giusto, difficile staccarla dal cervello una volta attecchita, in particolare grazie a un arioso ritornello. La traccia poi muta forma nella complessa parte finale, arricchendosi di elementi più affini al prog moderno, Vanden Plas e Vanishing Point su tutti.
“
Lapse” è una traccia che oserei definire “di raccordo”, anche se sarebbe sminuire un brano atmosferico, che gioca parecchio ancora una volta su un uso accorto delle tastiere e del basso, a discapito di riff complessi. E’ un po’ un’isola pacifica all’interno di un odisseico peregrinare, un episodio assolutamente imprescindibile in un disco di tale complessità qual è “Affinity”. Una complessità che viene esacerbata da “
The Architect”: 16 minuti di puro orgasmo musicale, un quarto d’ora abbondante di gioia per l’apparato uditivo, perfetto compendio di quello che gli Haken sono diventati in meno di 10 anni di vita. Basterebbe questo brano per spedire gli inglesi nell’Olimpo moderno del genere, ma attorno c’è talmente tanto d’altro che sarebbe limitante. Fin dall’inizio che richiama pesantemente gli Spiral Architect (che il titolo sia un voluto richiamo?) , il brano è un susseguirsi di arzigogoli stilistici mai banali o fini a sé stessi. Una traccia che va goduta nel suo complesso, senza concentrarsi troppo sugli elementi che la compongono ma apprezzando appieno il risultato finale. Buttiamo nel mix anche la presenza di Einar Solberg dei Leprous, band dalla quale gli Haken hanno attinto a piene mani per la realizzazione di questo disco, e il capolavoro è subito fatto.
Succede poi che a un capolavoro di complessità si abbini antiteticamente un capolavoro di semplicità: “
Earthrise” è infatti forse la traccia più immediata di “Affinity”, la più affabile, ma allo stesso tempo se la gioca con “The Architect” per la palma (personale) di migliore del disco. Strofa decisamente prog-rock, alla Kaipa, bridge con elementi quasi –core (dalli al blasfemo!) e una spruzzata di djent (ridalli al blasfemo!), luminoso ritornello AOR, per un brano che fonde anime contrapposte ma bilanciate alla perfezione, come solo chi ha ormai masterizzato la padronanza delle 7 note può permettersi di fare.
“
Red Giant” prosegue con l’uso ciecamente smodato dell’elettronica, mantenendosi però nella comodità del secolo scorso, introducendo al contempo in maniera eccellente una “
The Endless Knot” sopraffina, probabilmente il brano più complesso del disco dal punto meramente tecnico di questo nuovo Haken. Anche qui elettronica assoluta protagonista, con un Tejeida sugli scudi, che ci propone anche una trentina di secondi di spintissimo dubstep. Dubstep in mezzo a una canzone prog, sì, giuri. Traccia che, soprattutto nella strofa, verrebbe facile ricondurre ai Tool, ma con gli Haken i paragoni iniziano a diventare davvero troppo, troppo stretti.
A chiudere il disco “
Bound By Gravity”, quasi una ballad, necessaria a ritornare coi piedi per terra dopo un viaggio a tratti stralunato. Chiusura che riporta idealmente alla prima traccia, grazie ai suoni elettronici che avevamo trovato nell'opener.
E in tutto questo ho dimenticato una copertina uscita direttamente dai videogiochi anni '70 e un lavoro di produzione ad opera di Jens Bogren, che non sto nemmeno a commentare. Anche qui, un'altra versione della dicotomia che caratterizza 61 minuti di pura bellezza, che scorrono rapidi come ne fossero solo una frazione.
“
Affinity” è il disco che consacra gli Haken a nuova meraviglia del mondo del prog. Probabilmente solo la necessaria prova del tempo ci dirà se è allo stesso livello o addirittura superiore (azzardo? Sì.) rispetto al precedente “The Mountain”, nel frattempo io direi di godercelo per quello che è, ovvero un album pressoché perfetto, dove c’è tanto ma nulla è fuori posto. Un labirinto di note ed emozioni, di tecnica e atmosfera, di influenze e originalità: onestamente non mi sento di poter chiedere di più ad un album in questo 2016. I paragoni si disperdono, il songwriting è sempre più maturo e gli Haken smettono di essere “simili a” o “gli eredi di” e iniziano ad essere, finalmente,”semplicemente” gli
Haken.
Quoth the Raven, Nevermore..