Esordio sorprendentemente maturo per i
Fatal Destiny, in un ambito artistico, quello del
prog-metal, traboccante di stereotipi e di stagflazione.
Senza “sbalordire” per originalità e soluzioni espressive particolarmente audaci, i veronesi sfornano un albo parecchio godibile, generoso nella tecnica e, soprattutto, ricco di
feeling, arrivando ad attrarre l’astante con la forza impareggiabile delle composizioni e non grazie ad un profluvio di sterili virtuosismi.
In questo modo, influenze anche abbastanza evidenti (dai Dream Theater fino ai Pain Of Salvation, passando per Fates Warning ed Enchant …), s’inseriscono con gusto in un tracciato sonoro sufficientemente variegato e tuttavia mai “forzato” (esemplare in questo senso la gestione oculata dei cambi di tempo), pilotato dall’egemonica melodia e dalla voce sempre “a fuoco” di
Andrea Zamboni, un
vocalist dal gradevolissimo timbro (“qualcosa” tra
Ray Alder,
Geddy Lee e
Jon Anderson) e abile nel dosare ad arte l’emissione della sua dotata laringe, capace di puntare su vertiginosi acuti senza trascurare del tutto interpretazioni più ponderate.
Non meno valide appaiono le chitarre ispirate di
Riccardo Castelletti, la sezione ritmica curata da
Nicolò Dalla Valentina e
Filippo Zamboni, e la gran mole di lavoro svolta ai tasti d’avorio dall’ospite
Alessandro Bertoni (che,
oibò, ha registrato le sue parti ai
Derek Sherinian’s Beachwood Manor Studios …), preziosissimo contributore di un programma piuttosto avvincente nella sua totalità.
Dopo la breve introduzione della
title-track, “
Beyond dreams” rompe gli indugi con il suo andamento impetuoso e cangiante, e sebbene si tratti di un pezzo assai appagante, il suo meglio “
Palindromia” lo riserva nella barocca “
Leave me here” e nella volubile “
The gate of time”, in cui bagliori “classici” (Yes, Styx, …) e il
modus operandi dei campioni del metallo progressivo si combinano in maniera davvero efficace.
Buone vibrazioni arrivano anche dalla leggiadria malinconica concessa a “
Feel alone” e se “
Dear Amy” conserva, con un piacevole piglio “rockeggiante”, lo stesso
mood, tocca a “
Human factory” stuzzicare i sensi attraverso un’interessante elaborazione sonica a elevato coefficiente di melodrammaticità, a cui, per rendere completa l’operazione soggiogamento, manca solo un pizzico di superiore fluidità.
L’
outro sotadico “
No devil lived on” arriva, infine, a suggellare il bel debutto di un gruppo che merita di essere seguito con attenzione. Promettenti.
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