Quando ho letto che il nuovo disco dei
Meshuggah, il qui presente “
The Violent Sleep Of Reason”, sarebbe stato registrato in presa diretta, quindi con una produzione meno laccata, meno ‘costruita’, devo ammettere di aver avuto non poche remore.
Ciò avrebbe sicuramente significato rinunciare a quel
wall of sound cibernetico, quadrato al milionesimo di millimetro, gonfio e tronfio, che è uno dei canoni estetici del cyber/math thrash metal.
Recentemente la registrazione in presa diretta, addirittura dal vivo, era già stata tentata dagli
Skepticism con l’ultimo “
Ordeal”, e devo dire di non essere rimasto soddisfatto dal risultato.
Fortunatamente devo ammettere che il risultato finale non è niente male, e, anzi, la bravura esecutiva della band non è assolutamente inficiata dal tipo di produzione, e certe ruvidità o asprezze donano un mood più sanguigno e viscerale alle composizioni, per certi versi meno scontati e meno freddi del solito.
E veniamo alle composizioni.
Il disco in questione non segna alcuna svolta stilistica della band, riproponendo tutti gli stilemi caratteristici del loro sound, comprese chitarre a otto corde di
Hangstom e
Thordendal, nonché assoli fusion e ritmiche sghembe.
Le novità non sono molte, però si fanno notare. I pezzi hanno una verve maggiormente progressiva, nel senso che, anche data la durata media, i pezzi spesso cambiano mood più volte, mutando forma, anche se quasi mai in maniera lineare.
Esempio lampante di quanto dico è “
Monstrocity”, che addirittura si permette una dinamicità che verrebbe voglia di catalogarla come un pezzo nu metal. La voglio sparare grossa, ma potrebbe essere una cover dei
Limp Bizkit, ovviamente con il trademark della band di Umeå.
Le composizioni sono tutte variegate, di una varietà che è quasi inedita per i
Meshuggah.
Questa volta è difficile associare il termine monolitico a qualsivoglia delle canzoni di questo disco.
L’iniziale “
Clockworks” è prendere tutte le caratteristiche tipiche del sound della band, metterle insieme, destrutturarle e poi ricomporle, creando una sorta di nuova forma per la solita sostanza. Almeno questa è l’impressione che se ne ricava. Ciò è dovuto, a quanto sembra, all’apporto compositivo, per la prima volta, del bassista
Dick Lovgren.
Un grosso segnale di questo cambiamento è il suono della batteria di
Tomas Haake, mai così ‘umano’, e persino la voce di
Jens Kidman, da sempre uno dei punti di forza della band, sembra essere diventata più roca e naturale, e quindi più brutale.
La bravura tecnica della band è un metro di paragone da sempre, e anche questa volta non delude, raggiungendo il risultato di suonare tecnici ma non complessi. In poche parole, stavolta, almeno a me, non è venuto il mal di testa, il che può essere interpretato in negativo o in positivo.
La title-track è un po’ la summa di tutto il disco, quasi sette minuti di
meshuggherie assortite, suonate al meglio e vomitate in faccia all’ascoltatore.
“
Ivory Tower” è un distillato di apocalisse, “
Stifled” si concede un finale ambient che introduce la pesantissima “
Nostrum”, il cui assolo è letteralmente allucinante e nel quale
Haake dimostra di essere il miglior batterista in circolazione.
Il giudizio finale è estremamente positivo, per un disco che è certamente uno dei migliori mai composti (sicuramente il più completo) dalla band che, ad oggi, ha come pietra di paragone ancora se stessa e solo essa.
È chiaro che chi non li amava (o li capiva) prima non comincerà certo adesso.
Tutti gli altri troveranno decisamente pane per i loro denti. Un’ora di lezione dei maestri.
Il voto è puramente indicativo, non è il massimo solo perché adesso mi arrovellerò nel tentare di immaginare come sarebbe stato il disco se fosse stato registrato alla solita maniera. Perché in fondo quello che abbiamo sempre chiesto ai
Meshuggah è stato quello di comprimere il nostro cervello e di farcelo colare dal naso e dalle orecchie, con dischi monolitici quanto mastodontici. La speranza è che, come sembrano promettere i
Meshuggah, “
Our Rage Won’t Die”.