L’evoluzione del gruppo fondato dai fratelli Ranalli è stata a mio avviso straordinaria. Ai tempi di “Land of crystals”, uscito nel ’98 per White and Black, non mi ero troppo entusiasmato perché l’atmosfera cupa e soprattutto l’invadente componente elettronica nascondevano l’anima psichedelica del disco, facendola affiorare solo a sprazzi. Molto meglio il successivo “Jammin’ for smiling God” (2000, Beard of Stars) nel quale Hendrix e lo space-rock si fondevano insieme ed i contributi sintetici iniziavano a scivolare in posizione più defilata. Era chiaro che prima o poi gli Insider avrebbero messo a punto la loro proposta, realizzando una prova completa e convincente sotto tutti gli aspetti.
Sono occorsi ben cinque anni, un’attesa estenuante che oggi però ci appare giustificata, dato che “Simple water drops” è il disco appassionante nel quale speravo.
Per chi ama il rock a tinte scure, dai forti risvolti psichedelici e con lo spirito rivolto allo spazio, questo è l’album da avere assolutamente. Un liquido magma chitarristico pilota i brani in un mondo onirico e sconfinato, evocando galassie inavvicinabili e solitudine di fronte al cosmo, il timbro ieratico di Eugenio Mucci (Akron, The Black) è un altro punto di forza per creare la solenne atmosfera cosmica che è pregio del lavoro, abbellita però da un istintivo romanticismo nostalgico tutto latino che fa degli Insider una sorta di Sons of Otis molto più melodici, emozionali e meno impenetrabili.
Marco Ranalli dà fondo al suo inesauribile rifferama di scuola seventies pescando nella crema della psichedelia, ad esempio elevando lirismi floydiani nella fantastica title-track dove lo space-rock ha la forza evocativa di una liturgia, oppure scendendo sul piano terreno ad accendere ruggenti fuochi hard (“Hollow, Remorseful times”) o magari a riflettere sull’eterno mistero del cosmo e sulla sfida che esso rappresenta per il genere umano, pensieri che si trasformano in impressionanti jam-song doomeggianti innervate da lenti passaggi heavy e da solismi ispirati ed avvolgenti (“I remember, The equilibrist”). Un trasporto improvvisativo che non smarrisce mai la direzione diventando fine a sé stesso, anzi il respiro melodico leggero e sognante, visionario e sacrale, rimane sempre preminente all’interno delle canzoni, vedi “I belong the morning light” nella quale la perfetta simbiosi tra estese svisate psych ed il canto sobrio e pieno di sentimento costituisce la base di un potenziale hit rock settantiano.
Altro fatto da rimarcare è che ora gli Insider vantano una solida sezione ritmica che annulla quel senso di freddezza meccanica notato ai tempi della Terra dei Cristalli, motivo per cui gli apporti elettronici vengono sfruttati come sapiente abbellimento con pennellate tastieristiche ed effettistica space ad agire di conserva. Forse un po’scarni i testi, che talvolta si limitano a poche frasi ripetute di continuo, una pecca trascurabile nel contesto musicale di alto livello.
Ancora una volta mi ritrovo ad elogiare una nostra formazione per un lavoro di notevole spessore, fatto significativo per uno che non è mai stato particolarmente patriottico. Ciò può soltanto significare che la scena nazionale, perlomeno in questa branca alternativa, ha avuto un forte impulso di crescita qualitativa e può confrontarsi senza imbarazzo con le produzioni internazionali. Gli Insider dal canto loro rientrano alla grande, dimostrando di essere una delle formazioni più in forma del momento.
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