Sarà anche vero, come sostengono in molti, che
Magnus Pelander si è un po’ “montato la testa” e che sta attraversando una fase di stasi creativa (“
Nucleus” dei Witchcraft, ormai una specie di “creatura personale” del nostro, ha fornito più di un indizio in questo senso …), ma è comunque necessario essergli grati per il ruolo fondamentale che ha ricoperto nella nascita di quel movimento musicale definito
northern hard-rock, partito dalla piccola città boreale di Örebro con i Norrsken e da lì, per effetto di filiazioni dirette o di virtuosi processi emulativi (Graveyard, Dead Man, Troubled Horses, Blowback, Asteroid, Truckfighter, …), diventato una delle realtà più stimolanti nel recupero e nella rivitalizzazione dei suoni del
rock “classico”.
“
Time”, il nuovo lavoro solista di
Pelander recupera le elegiache ambientazioni elettro-acustiche del suo primo intrigante
Ep (“
A sinner’s child”, del 2010) e le fonde con alcune delle suggestioni ostentate nell’ultimo disco dei Witchcraft, proponendo al pubblico un concentrato d’introspezione e malinconia, capace di accostare Led Zeppelin,
Roky Erickson,
Neil Young, Jethro Tull e la scuola di Canterbury in un crogiolo sonico di non facilissima assimilazione.
Sei ballate dove sonorità
folk e un intenso senso d’inquietudine avvolgono l’astante fin dal primo contatto, lasciando nei sensi nel suddetto brandelli di straniamento, ammesso che si tratti di un appartenente a quella categoria di
musicofili che non cercano precipuamente l’impatto e l’immediatezza in una proposta discografica.
L’albo si dipana attraverso una formulazione stilistica abbastanza uniforme e lineare, per una sorta di litania pressoché ininterrotta che prende avvio con le meste atmosfere celtiche di “
Umbrella” e termina con il magnetismo algido della
title-track, inframmezzate dalla gradevole semplicità
simil-country di “
Family song” e dalla malia
Zeppelin/Tull-iana di “
The irony of man”, mentre “
True colour” e la conturbante “
Precious swan” rappresentano i momenti più ambiziosi e articolati del programma, inoculando piccole e singolari scosse propulsive (suggestivo l’improvviso ingresso di una
latin-guitar nel tessuto connettivo del primo dei due brani), scorie
progressive e
psichedeliche in un oceano di dolente e dilatata disperazione.
Di certo “
Time” non farà cambiare idea ai detrattori di
Pelander e difficilmente, anche a causa di un pizzico di diffuso manierismo, questo dischetto consentirà ai delusi dell’ultima ora di riacquistare la fiducia smarrita, e ciononostante l’impressione complessiva è che l’universo espressivo dello svedese abbia ancora molto da offrire … chissà che guardarsi “dentro” in maniera così profonda possa in qualche modo essere utile a ritrovare un po’ di quella naturalezza e istintività che nel 1995 lo fecero diventare uno degli artisti più importanti della “scena” … francamente io ci credo ancora.
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